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PORDENONE – Anche se l’edizione di quest’anno ha strizzato l’occhio alle band dall’impronta decisamente più Rock rispetto al passato, il Pordenone Blues Festival si conferma ancora una volta come una delle rassegne musicali più importanti del Nord Est e non solo.
Un calendario denso di concerti ed appuntamenti satellite hanno fatto sì che, anche questa volta, svariate migliaia di persone hanno raggiunto la città di Pordenone da ogni dove per partecipare alle serata in programma.
E’ bastato osservare le targhe delle macchine parcheggiate sin dalle prime ore del pomeriggio, oppure ascoltare la gente parlare, per capirne la provenienza, se da altre regioni italiane, oppure da nazioni limitrofe.
Dopo l’apertura in pompa magna il giorno prima con l’esibizione affidata al leggendario nome dei Deep Purple, il calendario del Festival  prevedeva lo spettacolo degli inglesi The Cult.
Con l’organizzazione “storica” dell’Associazione Pordenone Giovani, questa manifestazione negli anni passati ha presentato, nei vari bill, nomi come John Mayall, Eric Sardinas, Anastacia e Steve Winwood, solo per citarne alcuni, oltre al compianto Jeff Beck nell’edizione di un anno fa.
Questa volta invece il Pordenone Blues Festival ci propone la storica band inglese nella quale rimangono solamente due dei membri fondatori,  Ian Astbury alla voce, e Billy Duffy alla chitarra.
Ad aprire la serata, sarebbe ingiusto non menzionarli, i canadesi The Damn Thruth per un piacevole e colorato salto ai tempi degli hippies.
La cronaca. Finalmente smette di piovere ed il popolo dei The Cult è pronto ad accogliere i propri dei e tre minuti dopo le ventidue eccoli salire sul palco e prendere posizione.
Passano rapidamente i primi tre brani iniziali ed ecco che arrivano già le prime hit, in sequenza Sweet Soul Sister seguita da The Witch, pezzi che hanno il potere di catturare il pubblico, mentre Lil’ Devil mantiene alta la carica elettrica della serata.
Astbury,  vestito di nero con abito lungo, larga bandana a coprir la fronte fino quasi agli occhi, e due lunghe trecce di capelli neri, sembra quasi un magnetico stregone pellerossa intento a celebrare riti propiziatori per la sua tribù.
Ed il gioco diventa quasi magico quando, sulle note di Rain, qualche goccia inizia a scendere sulla folla entusiasta.
Inutile dire sia stato questo uno dei picchi della serata, ma non da meno l’immancabile She Sells Sanctuary eseguita immediatamente dopo (entrambi i brani estratti dal secondo disco The Cult del 1985).
Ma c’è ancora spazio per raggiungere nuovamente alte vette con la chiusura, classica, di Love Removal Machine.
Dopo ottanta minuti di culto del Rock, il nostro rituale purtroppo si chiude, ma siamo talmente tanto elettrizzati che ci va bene così.
Anche questa volta si tratta semplicemente di musica ma ci piace, e come se ci piace. 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Elisa Moro

TRIESTE – Un piccolo festival nato con l’intento di rendere omaggio alle meraviglie della nostra Regione.
La via di casa questa volta, nella notte di Ognissanti, ha fatto tappa nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia per la sua terza edizione intitolando la rassegna Halloween Special.
I suoi ideatori, La Tempesta dischi e la band pordenonese dei Tre Allegri Ragazzi Morti, hanno portato al Teatro Miela una serata articolata in quattro diversi capitoli, in modo da poter soddisfare un pubblico composito.
Un’autentica festa iniziata puntuale alle ore 21.00 con la benedizione di Squarta.
Il maestro di cerimonia, componente dell’Hip Hop band dei Cor Veleno, ha riscaldato a dovere la dance floor con uno speciale dj set prima dell’apparizione sul palco dei Cacao Mental con il loro sorprendete ed ipnotico live set.
Un fluorescente face painting di richiamo shamanico sud americano sui volti del trio, atmosfere psichedeliche e sonorità elettroniche, assieme ovviamente alla radice musicale della Cumbia, hanno soddisfatto chi già li conosceva e sorpreso chi invece li ha ascoltati per la prima volta.
Un veloce cambio palco, ed ecco gli headliner, i “colpevoli” di questa festa, ovvero i Tre Allegri Ragazzi Morti, la Rock band alternativa che non necessità di presentazioni e che ha un forte legame con la nostra città.
Visti più volte dal vivo a Trieste, i TARM vantano un precedente analogo, sempre sullo stesso palco il 31 ottobre del 2016.
Con le maschere calate sul volto, come da tradizione, anche questa volta la band pordenonese non ha deluso le aspettative dei numerosi fan, tra i quali anche alcuni giovanissimi tenuti sulle spalle dai genitori.
Ancora il tempo per un brano e dopo saluti e ringraziamenti, raggiunti on stage dai Cacao Mental, Toffolo e compagni, eseguono assieme, In questa grande città.

Ma la festa non è finita, e sul palco viene allestita una consolle per il rush finale che farà ballare il pubblico fino a tarda notte con la splendida musica elettronica di Populous, producer, deejay, compositore e sound designer, affermato in tutto il mondo.
Una notte di Halloween tutt’altro che terrificante dove musica e danze hanno esorcizzato spettri e streghe per i quali non c’è stato posto e da dove, La via di casa, li ha tenuti lontani.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Beatrice Robles

Sarà che sto diventando pigro, oppure la causa possono essere i miei gusti in ambito musicale, ma sta di fatto che difficilmente, oramai, riesco a provare soddisfazione quando ascolto un nuovo disco. In certi casi può capitare addirittura che mi risulti difficile completarne l’ascolto.
Fortunatamente non è sempre così e talvolta capita ancora di scoprire qualche piccola gemma nascosta nella folta vegetazione della giungla musicale, e rimanerne affascinati, e Puls-e è stata quell’inaspettata sorpresa capace di riempire quel vuoto che ogni tanto viene a crearsi.
Ad essere sinceri, l’artefice dell’opera è partito avvantaggiato. Sapevo fosse un percussionista, lo avevo già sentito e visto in azione quattro anni fa a Trieste, in una ventosa e fredda serata di inizio luglio, per il battesimo di quell’edizione del Trieste Loves Jazz.
La scorsa estate invece nel Parco del Museo Sartorio, sempre per la medesima rassegna, a presentare questa sua opera prima in un solo live set, immerso in una miriade di strumenti.
La musica, e soprattutto le sonorità di Doc Mabal, al secolo Maurilio Balzanelli, mi hanno rispedito indietro con memoria e sensazioni, al finire di quegli anni ’90 quando avevo iniziato a suonare e stavo scoprendo generi musicali coinvolgenti e fuori dai soliti schemi.
Immediatamente mi sono ricollegato agli ascolti dei Tuu di One Thousand Years, degli O Yuchi Conjugate, di Peyote e ad alcuni fantastici tribali dei primi dischi degli Ozric Tentacles.
Un giudizio di parte il mio, non lo nego, ma rimane il fatto che fortunatamente c’è ancora chi sceglie di proseguire per la propria strada per poi sorprendere.
Nella vita Maurilio Balzanelli ha cullato, cresciuto e fatto maturare le sue due passioni centrando, in questo modo, i suoi obbiettivi, ovvero la medicina (è un medico di professione) e la musica, seguendo il percorso ritmico delle percussioni.
Trasferitosi a Trieste da adolescente, ha suonato la batteria nei Luc Orient, coltivando amicizie e contatti rimasti saldi anche dopo il suo trasferimento in Veneto, sul lago di Garda, dove tutt’ora risiede.
Nel corso della sua attività artistica ha suonato in quindici dischi ed in svariati concerti, anche nell’ambito di rinomate rassegne.
Ed ora, finalmente, per lui è arrivato il momento di presentare Puls-e, la sua creatura, sua opera prima, davanti alla quale è impossibile rimanere indifferenti ed impassibili.
Per quarantuno minuti Doc Mabal, ci presenta un quadro completo del suo percorso e lo fa con meticolosa e certosina precisione.
In Puls-e nulla è lasciato al caso, e tutti gli strumenti sono suonati, da lui stesso, dal vivo, senza mandare in loop alcun take.
Dopo una breve intro dal titolo Octopus, il disco si rivela in tutta la sua bellezza con la seconda traccia Bolle, brano nel quale dei flauti andini ci fanno fluttuare, in una sorta di anticamera propiziatoria, prima di intraprendere il nostro viaggio.
Da questo momento il percorso si snoda attraverso ritmi Afro, scanditi da brani come Azalai, fino ad approdare nelle terre dei ritmi caraibici e del Samba con il brano Farra.
Un’avventura sonora durante la quale si delineano immaginarie conformità di paesaggi esotici, i cui confini, lontani nel tempo, vengono tracciati grazie alla musica creata con innumerevoli strumenti a percussione, campane, piatti e crotalini, e le melodie percussive di Log drum e Tank drum.
Un viaggio mitico e dal sapore atavico, eseguito in silenzio e con il massimo rispetto, seguendo il percorso indicato da Shangò, nostra divina guida in queste terre.
Undici sono le tappe di questo nostro pellegrinaggio, fino all’apoteosi finale che viene raggiunta con Eruption
Un crescendo la cui esplosione finale si manifesta per mano dello stesso Orisha che suona l’ultimo profondo e ridondante colpo di tamburo a conclusione del viaggio, ponendo un sigillo al varco d’accesso di questo mondo, un sigillo che verrà tolto, dalla stessa divinità, all’inizio del prossimo ascolto.

di Cristiano Pellizzaro
foto di Renzo Bertasi e Rosario Varsaica

 

Sabato 22 ottobre, presso gli studi di Radio City Trieste, Maurilio Balzanelli presenterà Puls-e.

A partire dalle ore 14.00, sarà ospite de Il Geco nella sua trasmissione Fronte del Palco.

Repliche giovedì 27 alle ore 10.00, e sabato 29 alle ore 14.00.

Contatti Maurilio Balzanelli
Mail: mbalzanelli@libero.it
Profilo Fb: https://www.facebook.com/doc.mabal

Video Maurilio Balzanelli in concerto a Trieste il 27 luglio 2022, Parco Villa Sartorio per il Trieste Loves Jazz
https://www.facebook.com/doc.mabal/videos/413894317258875

TRIESTE – Siamo stati fortunati ad aver assistito a questo concerto! Non capita infatti ogni giorno di potersi gustare una leggenda nel salotto di casa propria.
Gli Ozric Tentacles sono stati una band simbolo dell’underground musicale, un riferimento per molti amanti della musica e per molti musicisti.
Formatisi nel lontano 1982, hanno vissuto il loro periodo di massimo splendore negli anni ’90, decade in cui le pubblicazioni erano annuali con tour incluso.
Io li ho conosciuti nel 1997, visti dal vivo per ben undici volte, dodici con questa questa esibizione cittadina, grazie alla quale sono ritornati a Trieste per la seconda volta, dopo l’evento sold out del teatro Miela nel novembre del 2010.
Nuovamente il merito va all’Associazione Musica Libera, organizzatrice del Trieste Summer Rock Festival, giunto quest’anno alla diciannovesima edizione.
Innumerevoli cambi di line up nell’organico e indirizzato il timone verso le sonorità del nuovo millennio, Ed Wynne rimane l’unico membro della prima ora, ancora a guidare gli Erpfans assieme al figlio Silas.
Anche il nome è cambiato, diventando oggi Ozric Tentacles Electronic, lasciando poco spazio alle interpretazioni di quello che è il nuovo percorso della leggendaria band.
Molti i fan storici presenti al Castello di San Giusto, tanti (e molto più giovani) i seguaci che si sono uniti in tempi più recenti e che hanno dimostrato di apprezzare maggiormente le ultime produzioni.
I brani eseguiti durante la serata hanno fornito una mappatura esaustiva del mondo degli OTE, a partire da Eternal wheel (Erpland 1990) in apertura di serata.
Si è proseguito poi con Kick Muck e The Doms of G’bal (Pungent Effulgent del 1989), Sploosh! (Strangeitude del 1991) e Dance of the Loomi (Arborescence 1994), passando per Jelly Lips (The floor’s too far away del 2006), ed infine Blooperdome (Space for the earth del 2020) per arrivare ai giorni nostri.
Serata imperdibile ed emozionante, la seconda della rassegna che quest’anno ha ospitato anche Delirium International Progressive Group, Soft Machine ed Il Padrone della voce (tributo a Franco Battiato).
L’anno prossimo il Trieste Summer Rock Festival festeggia i vent’anni di attività. Chissà cosa bolle in pentola!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Nino Gaudenzi (NinoZx21)

GRADO (GO) – D’estate si balla, ci si diverte e ci si scatena. Poterlo fare sulla Diga Nazario Sauro di Grado con la musica dei Subsonica è stata veramente un’occasione unica, mai scelta è stata più azzeccata.
La band torinese non si è smentita nemmeno questa volta e per due ore, senza pause e senza i consueti e prevedibili bis di rito, ha trasformato il lastrico gradese in una splendida dance floor marittima sotto le stelle.
Un plauso quindi ai nostri paladini presentatisi in piena forma e con tanta voglia di suonare, offrendo al folto pubblico una set list tutt’altro che scontata.
Band senza eguali nel nostro paese, formatasi nel 1996 e invariata nella line up dal 1999, con ben dieci dischi all’attivo, i Subsonica sono arrivati sull’Isola d’oro per la decima edizione del festival Ospiti d’autore, pregiata rassegna della musica dal vivo curata e realizzata nel dettaglio da Azalea.
Con un lieve ritardo rispetto all’orario d’inizio, il concerto si apre con Nuvole rapide, primo singolo estratto dal disco Amorematico pubblicato ben vent’anni fa.
Buona parte del concerto ruoterà infatti attorno a questo disco, ma non sarà una delle solite serate celebrative.
I brani suonati ripercorrono tutta la loro carriera, anche se la scelta strizza l’occhio alla prima decade della loro storia, lasciando fuori più di qualche hit.
Ma, nonostante questo, il pubblico non protesta, anzi si lascia trasportare e gode delle ottime sonorità alle quali i Subsonica ci hanno abituati: drum and bass, levare e stuzzicanti elettroniche alternative.
Tastiere e batteria, suonate rispettivamente da Boosta e Ninja, la fanno da padrone, esprimendosi al meglio in Up Patriots to Arms (cover del 2011 di Franco Battiato), Benzina Ogoshi e Tutti i miei sbagli, invece, ci accompagnano al congedo della serata.
Si spera in qualche goccia di carburante ancora nel serbatoio del combo piemontese, ma Samuel si toglie gli auricolari e li consegna al fonico di palco, siamo veramente in chiusura.
D’estate si balla e ci si diverte sempre, con la buona musica.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

 

Foto di Maicol Novara

TRIESTE – Un palpabile entusiasmo aveva già invaso la piazza del Castello di San Giusto ancor prima dell’inizio del concerto, facendo scegliere a molti di non occupare sin da subito i posti assegnati e rimanere in piedi per potersi poi dare alle sfrenate danze per tutta la serata.
Qualche minuto di ritardo sull’orario previsto ed ecco che parte un’inconsueta e singolare ouverture che vede protagonisti alcuni dei musici passare tra il pubblico suonando i loro ottoni fino a raggiungere il palco, da dove a breve sarebbe iniziata la festa.
Il Maestro Goran Bregovic, ambasciatore della cultura balcanica veste un elegante completo bianco che lo fa spiccare in mezzo agli altri sette musicisti con abiti popolari e costumi tradizionali.
La Wedding and funeral band è un elemento imprescindibile della figura artistica del musicista e compositore bosniaco, di passaggio a Trieste quasi ad ogni suo tour.
Non ha bisogno di presentazioni Bregovic, anche i sassi sanno chi è e da dove è partita la sua storia.
La sua fama è legata alle colonne sonore dei film diretti da Emir Kusturica, ma ancor prima ha fatto breccia nei cuori della gioventù dell’allora Jugoslavia con il Rock dei Bijelo Dugme.
Tutta un’altra strada quindi, ma non è questo il primo o il solo caso, di precedenti analoghi se ne contano parecchi.
Un sold out annunciato, millecinquecento persone stipate nel Piazzale delle Milizie in un rovente sabato 23 luglio, per quello che è stato uno degli eventi principali dell’estate triestina, organizzato dalla Good Vibrations Entertainment per la rassegna Hot in The City, festival rientrante nella programmazione di Trieste Estate.
Chissà quanti fra i partecipanti a questa calda serata erano presenti allo Stadio Grezar nell’estate del 1998, quando Bregovic iniziava a cavalcare l’onda del successo fuori dai confini nazionali e passava nella nostra città per la prima volta.
Oppure nell’ottobre dell’anno successivo, quando lo stesso fece tappa al PalaTripcovich per uno spettacolo avvincente in cui musica e bellissime letture recitate dall’attore Omero Antonutti, si fusero assieme.
Certamente da allora il pubblico è cambiato, e molti dei festanti e scalmanati giovani presenti sul colle in questa serata al tempo non erano ancora nati.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste 

Foto di Francesco Chiot

TRIESTE – Una delle qualità del blues è che si può apprezzare sia nelle sue versioni tradizionali che nelle sue interpretazioni meno canoniche. E che in entrambi i casi può essere piacevole, interessante e appagante. La serata di lunedì proposta dal festival Hot in the City nel castello di San Giusto ne è una prova lampante.
Pronti, via. Le sorelle Lovell salgono sul palco, attaccano subito con il riff iniziale di She’s a Self Made Man e richiamano il pubblico, seduto e composto sulle loro sedie, ad alzarsi ed accorrere sotto il palco.
È chiaro fin da subito che ciò che si preparano ad offrire è qualcosa di diverso.
Rebecca e Megan Lovell sono cresciute nella terra del blues, della roots music, del bluegrass, sono fatte della stessa sostanza. Non possono interpretare il genere, lo trasudano.
La scaletta alterna pezzi più energici (
Trouble in Mind, Wanted Woman-AC/DC), a pezzi più groove (Bleach Blonde Bottle Blue, Holy Ghost Fire) e ad alcuni momenti più intimi (John the Revelator, Might as Well) senza un calo di tensione, un momento in cui i musicisti non sembrino un tutt’uno con la loro musica.
L’affiatamento della band è impressionante, a partire dalla sezione ritmica (Brent Layman al basso e uno strepitoso Kevin McGowan alla batteria), decisamente più presente che sui dischi, senza però essere mai invadente.
Rebecca è una frontman eccezionale, una sirena che ammalia e avvelena con la sua voce, ed una chitarrista che sa essere polverosa, ruvida e allo stesso tempo soave, proprio come la sua terra rossa, quel Georgia clay che evoca nel brano
Blue Ridge Mountains.
I meravigliosi, armonici contrasti si notano anche nella sorella Megan: molto meno estroversa ed appariscente, ma la sua slide guitar è padrona della scena, e la sua voce dialoga in perfetta sintonia con Rebecca.
L’energia è contagiosa, come testimoniano i mille sorrisi sul palco e tra il pubblico composto da giovani americani in vacanza, signori e signore ampiamente sopra gli -anta, e bambini con genitori che ci tengono a fare crescere bene i loro figli.
La forza della musica di Larkin Poe infatti sta nell’essere fresca e moderna, ma non per questo meno “vera” o distante dalla tradizione: può ammiccare al pop di Lily Allen (
Mad as a Hatter) o ispirarsi alle sonorità di Jack White (Bad Spell, il primo estratto dal prossimo album, Blood Harmony, in uscita a novembre), e allo stesso tempo omaggiare Son House con Preachin’ Blues, richiamare Blue Sky degli Allman Brother all’interno di Back Down South, e concludere la serata con una trascinante versione di Come in My Kitchen del padrino del blues Robert Johnson.
Nell’opening act la friulana Eliana Cargnelutti, supportata da una band di musicisti ineccepibili, ha proposto, invece, un blues che rielabora i classici standard, facendo qualche incursione nell’r&b e nel boogie.
I brani hanno un unico imperativo: trascinare. Ed il pubblico, pur accomodato sulle proprie sedie, non può fare a meno di battere il piede e seguire il ritmo.
Eliana, supportata da una solida sezione ritmica, e un tappeto di hammond su cui si innestano i fiati, propone i suoi brani (tra cui spiccano Who is the Monster? e Breathe Again del suo più recente Aur) con energia ed eleganza.
La sua voce e la sua chitarra, entrambe impeccabili, spiccano anche quando interpretano un classico moderno come Soulshine (the Allman Brothers Band).
Eliana e la sua band vengono salutati da convinti applausi che premiano l’ottima interpretazione del blues più tradizionale.

Grazie Good Vibrations Entertainment Srl & Trieste is Rock per averci offerto una speciale serata di blues al femminile.
Grazie a Eliana Cargnelutti per averci dimostrato che anche in Italia il blues si sa suonare bene.
E grazie Larkin Poe per averci dato una prova tangibile che il blues è vivo e vegeto, e per averci fatto vedere (e sentire!) che l’America è ancora in grado di regalarci emozioni meravigliose.

Erasmo Castellani
per Radio City Trieste e Rock On radioshow

foto Andrea Mr Rock Sivini

TRIESTE – La luna, un castello, il rock’n’roll, ed il gioco è fatto!
E Glenn Hughes,”The Voice of Rock”, l’ha notato e fatto notare più volte nel corso del concerto organizato da Good Vibrations Entertainment Srl in collaborazione con l’Associazione culturale Trieste is Rock e la co-organizzazione del Comune di Trieste, e che lui, Doug Aldrich e Brian Tichy hanno tenuto nella splendida cornice del Castello di San Giusto a Trieste, davanti ad un pubblico ritornato finalmente in presenza dopo il periodo, lunghissimo, della limitazioni per la pandemia.
Tre “visioni personali” della performance del terzetto (David Lowy, il padrone/chitarrista della band li ha abbandonati, momentaneamente, per “problemi familiari”), nella nottata triestina del loro EU Summer Tour 2022
1. il cronista: si parte, benissimo, con Arthur Falcone e gli Stargazer, che fanno subito decollare la serata con la loro musica ricca di ritmo e virtuosismi, bravi davvero. Ma alle 22 in punto arrivano sul palco i Dead Daisies che sciorinano, in un’ora e quaranta circa, un’esibizione tecnicamente ineccepibile.
La grande esperienza ed il “mestiere” soprattutto del bassista e cantante di Cannock, rende il tappeto musicale compatto e quadrato per tutta la durata del set, farcito dalle interpretazioni di qualche classico della band (Mexico e Long way to go), qualche cover (Midnight Moses, Fortunate Son, Mistreated e Burn), un paio di assoli e una buona parte di brani tratti dagli ultimi album, specie quello realizzato dopo l’avvento dell’ex Deep Purple all’interno della band.
2. il commentatore: l’atmosfera creata dal power-trio ha immediatamente contagiato (in senso “musicale”) il pubblico presente sulla piazza d’armi del Castello di San Giusto il quale, subito dopo le prime note di  “Long way to go” si è alzato in piedi e riversato sotto il palco, come sempre succede ai concerti rock che si rispettino.
La serata è volata via a suon di headbanging, air guitar e ondeggiamenti del corpo come non ci fosse un domani, anche se, credo, che almeno una parte del pubblico probabilmente non aveva mai sentito prima  neanche un brano della setlist. Ma anche questa è la magia del RnR!
3. il fan: conosciuti (ed amati) sin dal lontano 2013, data di uscita del loro eponimo album di debutto, soprattutto grazie ad alcuni brani come Washington, It’s gonna take time, Yeah Yeah Yeah e, soprattutto Lock’n load (anche grazie alla presenza nel pezzo di Slash), e visti in più occasioni a vari festival e concerti, avrei gradito che almeno qualcuna di queste perle fosse inclusa nel set triestino.
Non è stato cosi, purtroppo, ma nonostante ciò ho comunque apprezzato la maestria di Hughes, la tecnicità di Aldrich e la potenza, veramente devastante, del “martello” Tichy, forse rimpiangendo però un pochino la voce di John Corabi, probabilmente più adatta al “rock da strada” dei primi Dead Daisies.
Un bel ritorno ai concerti rock di qualità nella nostra città, quindi, ed un augurio di lunga vita alle “Margheritine morte”, forse un controsenso ma, decisamente, molto Rock’nRoll!

Rock On!

Andrea Mr Rock Sivini
per Radio City Trieste e Rock On radioshow

TRIESTE – Era solo questione di tempo. Il momento di ritrovarsi, per riprendere in mano quanto avevamo lasciato in sospeso un anno e mezzo prima, finalmente è arrivato.
Non potevamo stare lontani dalle nostre attività ancora per molto. Intorpiditi dalla lunga pausa, pronti a rispolverare quanto dovuto interrompere senza sapere quando, in quali condizioni e, soprattutto, se mai avremmo potuto rimetterci al lavoro.
Nonostante conservassimo vecchi appunti scritti su carta e ci fossero anche delle registrazioni a venirci in soccorso, le idee ai primi incontri erano un po’ confuse.
Di polvere da rimuovere dai nostri ricordi ne avevamo parecchia e soprattutto la complicità delle poche prove a nostra disposizione hanno fatto sì che alle prime sessioni qualche animo ha tardato ad accendersi.
Spaziosi locali che di giorno ospitano un atelier di giovani artisti cittadini, al piano terra di una bella residenza d’epoca posta sul noto colle triestino, di sera diventano una suggestiva e confortevole sala prove per sette musicisti e un attore, pronti a smussare gli spigoli di un massiccio blocco di pietra e dare vita ad una creatura che, una volta presa forma, continuerà da sola il suo cammino fino alla maturazione finale.
Immersi tra tele di pittori, bozzetti, calchi e statue di scultori, scaffali pieni di libri e cataloghi, trovano posto anche microfoni, chitarre, amplificatori, percussioni varie ed una fisarmonica. Stiamo sempre parlando di attrezzatura artistica che, di conseguenza, ben si pone in mezzo a tutto il resto.
E così, chi su una sedia, chi su un vecchio divano o su uno sgabello, pregiandosi della sempre presente visita di Sam, uno splendido e mansueto Golden Retriver, in una piovosa serata di fine agosto, gli Illirya si ricompongono per iniziare a lavorare nuovamente ad Amica Carissima, uno spettacolo tematico con testi e musiche di Miriam Baruzza.Ma chi sono questi Illirya, chi si nasconde dietro al nome di un popolo che un tempo viveva in queste terre?
Per comprendere al meglio la loro storia dobbiamo fare un passo a ritroso di una dozzina d’anni circa, ovvero quando Miriam Baruzza e Alessandro Castorina, compagni nella vita e nella musica, decidono di musicare i testi da lei scritti, raccogliendo attorno a loro un nutrito gruppo di ottimi musicisti locali con l’intento di fondere cultura, tradizione e musica popolare della zona, scegliendo un nome importante come quello dell’ Illirya.
Nel corso del tempo questo nome ha assunto un significato ben più ampio ed il concetto di questa idea oramai matura, ha dato vita anche ad un’omonima associazione culturale che intende promuovere e far conoscere talenti e forme d’arte locali mediante incontri, mostre, concerti ed eventi culturali di ogni tipo. (FB Illiryamusic)
Dalle prime esibizioni, sino alla realizzazione del disco di debutto Nuvole di Passaggio (2019), diversi artisti si sono avvicendati in questo ensemble in cui attualmente, oltre ai già citati fondatori Miriam Baruzza (voce e autrice dei testi) ed Alessandro Castorina (basso elettrico), troviamo Diego Vigini (chitarra), Mauro Berardi (batteria), Stefano Bembi (fisarmonica), Massimo Leonzini (percussioni) e Cristiano Pellizzaro (percussioni aggiuntive).

Appositamente coinvolti, invece, per questa rappresentazione, l’attore teatrale Angelo Mammetti, la cantante Aisha Marin e lo scultore Max Solinas.Musica, poesia, recitazione e scultura hanno quindi convissuto per una sera sullo stesso palco, presentando al pubblico il caleidoscopico obbiettivo dell’associazione Illirya, oltre ad offrire con eleganza e raffinatezza presso al Teatro di San Giovanni di Trieste la prima assoluta di Amica Carissima, un viaggio attraverso musica, parole e forme nell’universo femminile.Un percorso che si sviluppa partendo da una semplice lettera scritta da un uomo ad una donna, per poi arrivare a contatto con quella forza ancestrale che da sempre dimora nella vita stessa e che attraverso il tempo arriva fino a noi.Tutto questo sino a scoprire la femminilità vista come fonte creativa e motore dell’esistenza, espressa attraverso i miti e gli archetipi, ma che nel corso dei secoli è stata spesso repressa e non riconosciuta nella sua importanza vitale. Quindi tutte le diverse figure, i diversi volti, sposa, dea, guerriera, guaritrice, strega, madre e figlia, descritte attraverso il racconto poetico e le canzoni, fino ad arrivare ad un unico messaggio: “l’unione delle due forze più grandi dell’universo, il femminile ed il maschile, che insieme creano il tempo e lo spazio, sono destinate a danzare insieme per creare la Vita”.Archiviata la prova generale, e terminati gli innumerevoli preparativi, finalmente è arrivato il momento di andare in scena.In fondo alla sala il fonico Fiodor Cicogna e il tecnico luci Stefano Pincin stanno ultimando i settaggi ai loro mixer e registrando tutte le impostazioni.Sul palco, invece, la strumentazione degli Illirya è definitivamente disposta assieme alla postazione del narratore Mammetti.L’allestimento si completa con l’omaggio alla figura femminile, pocanzi descritta, mediante l’esposizione sulla scena di alcune sculture dell’artista veneto Max Solinas del Borgo di Cison di Valmarino.Quattro rappresentazioni della donna, secondo la sua prospettiva artistica, realizzate in legno e metallo, che lui stesso descrive così: “Non ho nomi particolari per le sculture, sono tutte Modelle. Modelle di vita, per stile e scelte mai così comode, per cui mai scontate. Il più delle volte contro corrente e contro alla moda e alla mondanità…proprio per questo libere e leggére. Sempre alla ricerca di qualcosa in più attraverso il togliere alla materia, alla materialità…alle chiacchiere senza contenuti. Modelle Silenziose”.
L’attesa è quasi finita, le porte si aprono ed il pubblico, già numeroso fuori dalla sala, inizia a prendere posto. Nel frattempo la tensione sale e l’impazienza di mettere in moto la giostra la fa da padrona.
Con alcuni minuti di ritardo finalmente le luci si spengono e Miriam Baruzza fa il suo ingresso in scena per i saluti di benvenuto ai partecipanti, per i ringraziamenti a tutti coloro che hanno reso possibile la realizzazione di Amica Carissima, e chiama sul palco, per una breve presentazione della serata, Il Geco di Radio City Trieste (emittente web partner dell’evento), e Max Solinas per una descrizione delle sue opere.
Ora si è pronti per iniziare. Silenzio e buio in sala creano l’atmosfera giusta. Aisha Marin apre lo spettacolo con un testo da lei scritto e recitato come saluto ad un amico recentemente scomparso.
Qualcosa però non va per il verso giusto e un inconveniente tecnico non permette il controllo dell’audio dal banco del mixer. Fiodor attraversa la sala di corsa fino a raggiungere le quinte in modo da avvisare i musicisti che a breve andranno in scena. Questa proprio non ci voleva.
Qualcuno sbuffa appoggiandosi sulla ringhiera nel retro palco, qualcun altro impreca volgendo lo sguardo verso l’alto. Non è possibile che tutte le fatiche e le energie spese si siano vanificate proprio adesso ad un passo dalla meta.
Fortunatamente però ci sono Fiodor e la sua professionalità che scongiurano il peggio in men che non si dica, senza che nessuno se ne accorga.
I musicisti prendono posto tra gli applausi del pubblico, l’ultimo ad entrare in scena, mentre le prime note già si diffondono in sala, è il narratore, l’attore Angelo Mammetti.

Kol Dodi, La dea, Maria Maddalena, La strega, Bora, Come rugiada, La lettera del soldato, Il tempo dell’uva e del miele, Tango e Signora della baia, sono i dieci brani previsti in scaletta per questa serata.
Chi scrive questa cronaca ha la fortuna di vivere la serata direttamente dal palcoscenico, suonando seduto in un angolo a ridosso delle quinte, a fianco della più imponente delle quattro sculture.
Posizione privilegiata la mia, dalla quale mi è possibile gustare quanto accade, tenere d’occhio la scena e godere in tutta tranquillità di questa magica serata scambiando, di tanto in tanto, qualche sguardo divertito con Alessandro Castorina.
Qualche metro più in là, davanti a noi, sprofondato sotto al palco, il pubblico è immerso nel buio e da qua sopra le luci, a malapena, mi lasciano intravedere le sagome di chi è seduto nelle prime file.
Con l’onirica ouverture Kol Dodi, le luci riscaldano la scena creando l’atmosfera giusta e fondendosi alla perfezione con la musica e l’allestimento presente sul palco.
La dea, mediante i suoi versi “attraversiamo insieme la notte/ad un nuovo mattino ti condurrò/vieni con me nel giardino della dea/porta con te gioia e lacrime”, accompagna l’ascoltatore verso il cuore dello spettacolo mentre Miriam omaggia uno ad uno i suoi musicisti con una danza rituale, nel modo in cui ogni cerimoniere che si rispetti saprebbe fare.
Perfettamente in linea con il set percussivo di Massimo Leonzini, alla mia sinistra, e a ridosso della batteria di Mauro Berardi, al mio fianco destro, posso osservare ogni minimo particolare.
Tra i drappi neri del sipario che dividono la scena con le quinte, ogni tanto vedo spuntare l’obbiettivo di una macchina fotografica. Con molta discrezione, e silenziosamente come un gatto, alle nostre spalle si aggira Fabiana Stranich, unico fotoreporter autorizzato dagli Illirya nonché autrice dei bellissimi scatti del concerto.
Di fronte a me, sotto i riflettori, i colori variano dal verde al rosso, dal giallo al blu durante tutto lo spettacolo in un crescendo di intensità e raggiungendo l’apice con Bora, arrogante stacco strumentale di chiara matrice Progressive anni 70.
Prima però il copione prevede l’esecuzione de La strega, brano il cui titolo lascia poco spazio alle interpretazioni, che in un crescendo incalzante, dopo un assolo di chitarra di Diego Vigini, vede la voce di Miriam Baruzza guidarlo verso la conclusione, per poi lasciare le redini alla fisarmonica di Stefano Bembi.
Il brano è in dirittura finale, c’è l’atmosfera giusta ed il pubblico è con il fiato sospeso.
Per la chiusura all’unisono, fisarmonica e batteria dovranno essere in linea e affinché ciò avvenga Stefano deve catturare l’attenzione di Mauro. Si gira, lo chiama a gran voce.
I due si guardano, c’è intesa, ed al resto degli Illirya non rimane che seguirli per chiudere, tutti assieme, in perfetto sincronismo.
La sala piomba nel buio e nel perfetto silenzio musicale, ed allora scatta, inevitabile, l’applauso del pubblico per un finale così perfetto.
Da questo momento Amica Carissima prenderà una direzione diversa, più umana, proseguendo il suo viaggio attraverso i sentimenti.Dall’amore materno de La lettera del soldato, missiva scritta da un figlio sul fronte di guerra, passando per l’amore tra uomo e donna con Tango, la cui esecuzione, ricca di pathos, prevede un cantato a due voci di Miriam e Mauro, che per l’occasione abbandona il seggiolino della sua batteria.
La chiusura spetta a Signora della baia, un’accattivante Bossa Nova, sulle cui note ci si prepara al congedo non prima però che Miriam Baruzza abbia generosamente presentato musicisti, collaboratori e ospiti.
Non ci sarà nessun bis, Amica carissima non lo prevede, o forse è più adeguato dire che un’encore sarebbe del tutto fuori luogo non essendo questo un semplice concerto, ma qualcosa di più.
Uno spettacolo articolato, concettuale, dove l’intreccio di diverse forme d’arte formano una figura sola, come spiegato all’inizio.
Musica finita e luci accese in sala quindi con applausi dalla platea e saluti per tutti dall’alto del palco, con gli artisti tutti presenti davanti ad un pubblico soddisfatto che ora scalpita per altre repliche.

di Cristiano Pellizzaro

foto di Cristiano Pellizzaro e Fabiana Stranich

Link utili

Mauro Berardi Un modo diverso di insegnare e imparare a suonare la batteria

Stefano Bembi Pagina FB attività artistica

Angelo Mammetti Pagina FB ; Sito somasinidisi.it ; Blog

Stefano Pincin (trasmissione Sarsicce & Guaranà ideata e condotta assieme a Marco Busan) FB e Spotify

Max Solinas Sito ufficiale

 

Video Illirya

Il Tempo dell’uva e del miele

Il bimbo e il pellegrino (Live al Teatro di San Giovanni di Trieste, 22 febbraio 2019)

 Figlia di (Live al Teatro di San Giovanni di Trieste, 22 febbraio 2019)

TRIESTE – C’era una volta a Torviscosa, sulla strada statale che conduce a Cervignano, il Bourbon Street, un locale che, all’epoca dei fatti, forse aveva già cambiato nome ed era diventato il Blu Pavone.
Sono trascorsi parecchi anni da allora, ma i ricordi di Franco sono ancora ben vivi e nitidi, tanto da permettergli di raccontare di un giovane cantautore, tale Vinicio Capossela.
Seduti al tavolo di un ristorante nei paraggi del teatro Rossetti, il mio amico, arrivato da Ronchi dei Legionari appositamente per il concerto, apre il cassetto dei ricordi, tira fuori questa storia dei primi anni ’90 ed inizia il suo racconto.
Bizzarro immaginare il cantautore non ancora famoso che, al pianoforte, suona per meno di un centinaio di spettatori seduti ai tavoli di una sala immersa nel fumo delle sigarette non ancora bandite, in un’atmosfera quasi onirica.
All’epoca le radio già mandavano in onda qualcosa di Capossela, ed è proprio così che Franco l’aveva ascoltato per la prima volta; ed aveva poi avuto la fortuna di assistere ad uno dei suoi primi concerti regionali, permettendosi anche il lusso di bere qualcosa assieme a lui a fine serata.Raccontata così potrebbe sembrare la trama di un film, con i due che s’incontrano tanti anni dopo, dandosi appuntamento ad un orario bislacco, inconsueto, All’una e trentacinque circa.
Ed è proprio così che è andata, perché questo è il titolo dell’opera prima di Capossela, celebrata a Trieste con questo concerto non per un sentimento di nostalgia ma piuttosto per omaggiare le proprie origini. Un appuntamento rispettato da tutto il pubblico presente a questo bellissimo evento andato in scena al Teatro Rossetti di Trieste ed organizzato da Vigna PR e And Production, in collaborazione con il teatro stesso.Risicati i riferimenti alle sue opere più recenti, la serata è ruotata principalmente attorno ai primi tre dischi, dando spazio al già citato debutto del 1990, benedetto da Francesco Guccini e per la cui realizzazione erano stati chiamati in causa i migliori musicisti della scena di allora (Bandini, Villotti e Pitzianti, solo per citarne alcuni), oltre al leggendario Antonio Marangolo al sax, e il fido Enrico Lazzarini al contrabbasso, entrambi presenti sul palco triestino assieme a Zeno De Rossi alla batteria e Giancarlo Bianchetti alle chitarre.
Due ore e mezza di spettacolo mozzafiato, filate via senza alcuna pausa, durante le quali Capossela non ha mancato di omaggiare la nostra città che tanto ama, ricordando alcune notti brave spese in locali notturni triestini, e intonando assieme al pubblico alcuni versi della popolare canzone dialettale “Ancora un litro de quel bon”.
Veramente una bella serata. Una rimpatriata tra amici che si sono dati appuntamento All’una e trentacinque circa.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca