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MAJANO (UD) – Stasera ho deciso di addentrarmi in un esperimento antropologico, e lo faccio costringendo mio fratello minore Manuel a farsi quasi 3 ore di macchina per andare a vedere un concerto di una band che lui ignora completamente, non l’ha mai sentita nominare, non ha la minima idea né della loro provenienza, né del loro genere, e della quale band, a stento sa pronunciarne il nome, senza troppe storpiature: i FLOGGING MOLLY.
E ci sono pure delle aggravanti: la prima è che nemmeno io, nonostante il mio trentennale girovagare per mezzo mondo tra festival e concerti rock, non ho MAI avuto il piacere di vedere questa band esibirsi dal vivo, fatta eccezione per qualche spezzone live di youtube.
La seconda è che ci arriva un sms della protezione civile per un’allerta meteo proprio in quell’area del Friuli dove sono previsti tifoni e trombe d’aria.
Allora concedo l’opzione al mio caro fratellino che, in caso di forte maltempo o, ancor più malauguratamente, che lo show non sia di suo gradimento, noi si faccia immediato ritorno a casa.
La 64ma edizione del Festival di Majano è in piedi già da un mesetto e da qui son passati, e passeranno, tanti musicisti italiani, Venditti, Gigi D’Agostino, il gladiatore Russell Crowe e non ultimi i Wolfmother, un paio di giorni fa.
Mancano pochi minuti alle 22 e sul maestoso (complimenti!) palco, nell’oscurità totale, salgono ad uno ad uno tutti i vari musicisti , introdotti da una canzone popolare irlandese, neanche fossimo nel mezzo delle verdi lande dell’isola di smeraldo.
Approfitto per spiegare a mio fratello che il nome del gruppo si ispira alla figura di Molly Malone, simbolo della città di Dublino, la leggendaria pescivendola di giorno e prostituta di notte, la cui statua portafortuna è una delle più fotografate e palpate della capitale nordica.
Manuel si ricorda di aver lasciato pure lui le sue impronte sulle prosperosità della statua della piccola Molly.
Si parte subito a bomba con uno dei pezzi più noti ed apprezzati “DRUNKEN LULLABIES”. Manuel parte e torna con due birre.
Appena finita la successiva “JOHN L.SULLIVAN” il frontman Dave King decide di abbandonare l’elegante panciotto e restare in camicia bianca per introdurci alla splendida “SWAGGER” tratta dal loro album di esordio.
Spiego a mio fratello che, paradossalmente, come i ben noti Dropkick Murphys (anch’essi americani, di Boston), i nostri non si sono formati in qualche paesino della scogliera irlandese, bensì a poche miglia dal Pub di Beverly Hills “Molly Malone” in pieno centro a Los Angeles.
La nota di colore viene presa quale fonte d’ispirazione tant’è che mio fratello sparisce e torna con altre due birre.
Sono proprio curioso di sentire come verrà detto, in americano, il nome della ospitalissima cittadina friulana (complimenti per la venue e tutte le prelibatezze culinarie che fanno da contorno all’Area concerti in pieno centro a Majano), memore ancora delle difficoltà riscontrate qualche decennio fa da Bruce Dickinson che, con i suoi Iron Maiden, se l’era cavata con un “Screaaaam for me, Maijno!”
Ed è proprio al termine di “KEEP THE MAN DOWN” che Dave si concede una pausa e, afferrata una birra, augura al migliaio di festanti presenti un “Cin Cin Masgiaaano!”
Il frontman è un fiume in piena, gigioneggia, intrattiene, scherza, suona la chitarra acustica che spesso cambia grazie al prode roadie, dalla folta chioma, Mike (“che si è appena tagliato i capelli …”frase che userà anche per il suo chitarrista Dennis…peccato sia calvo!) e si auto dedica la successiva “ WHISTLES THE WIND”.
Sua moglie Bridget che lo coadiuva nei cori ed impreziosisce il set con il suo violino, esordisce con il tin whistle su “TENEMENT SQUARE” altro estratto dai loro esordi.
Faccio notare a Manuel quanto stravagante sia il vedere la comparsa di tutti questi strumenti “folkloristici” tra flauti, fisarmoniche, banjos, in un concerto Heavy Metal; lui non se ne cura tantissimo e va prendere altre due birre.
Dave offre una birra ad un fan presente sulle transenne in prima fila solamente per il fatto che indossi la maglia della nazionale di calcio irlandese (“Se pensate che sia solo la vostra nazionale che faccia cagar…”) ed offre a tutti la splendida “SONG OF LIBERTY”.
Tra violini, tacchi sbattuti sul palco, il mandolino di Spencer Swain e la fisarmonica di Matt Hensley mi sembra di essere in un fumoso Pub irlandese, ma stasera siamo all’aperto (non piove per niente, anzi spira una stupenda brezzolina rinfrescante) con un migliaio di persone festanti ed in orario ben lontano da quello di chiusura.
Penso a quanto sarebbe utile portare qui tutte quelle persone super stressate che ci circondano giornalmente con i loro pessimi umori e le loro problematiche esistenziali, mentre non posso non notare quanto, invece, qui tutti se la stiano spassando, con il sorriso ben stampato in faccia.
Alcune decine di coppiette ballano e si divertono, infatti è praticamente impossibile non farsi coinvolgere, ballare, cantare e saltare in questa grande festa Irish.
Manuel è d’accordo con me: anche se non le conosce, le loro canzoni riescono a trasmettere energia, sentimenti di unione e fratellanza, e anche nell’assoluta mancanza di fronzoli e fuochi pirotecnici (c’è solamente il loro logo proiettato sul megaschermo sullo sfondo del palco), il concerto è spettacolare e coinvolgente.
In questa collettiva esaltazione e perfetta incarnazione dello spirito irlandese, mio fratello decide di andar a prender altre due birre.
Sulla successiva “THE CROPPY BOY’98”, Dave inizia a suonare un altro caratteristico strumento di percussione, il bodhrán.
Poi, con il classico “Graziiiiii”, gratifica il mosh-pit, il pogo (che lui chiama “Devils Dance”) che si è scatenato coinvolgendo le prime decine di file sotto il palco, ovviamente su “DEVILS DANCE FLOOR”, “THESE TIMES HAVE GOT ME DRINKIN’”, estratto dal loro ultimissimo lavoro discografico (2022), che è subito dopo seguita da “CRUSHED”.
Noto, con molto piacere, quanto massiccia sia la loro sezione ritmica con gli ottimi Mike Alonso (alla batteria) e Nathen Maxwell (al basso).
Su “SAINTS AND SINNERS” mi arrivano altri due bicchieri di bionda, con i quali rifletto che, anche se ero stato opportunamente allertato nel pomeriggio, mai mi sarei immaginato di essere in una tale situazione di pericolo, anche senza pioggia…
Si prosegue con “REBELS” che viene dedicata a tutti i festosi presenti, prima di cadere sotto l’inno anarchico “BLACK FRIDAY RULE” e, subito dopo, l’artiglieria pesante delle conclusive “SALTY DOG” (stupenda!) e “WHATS LEFT OF THE FLAG
Dopo una ventina di pezzi proposti, senza praticamente una vera e propria pausa, ed un’ora e mezza di goduria (90 minuti d’orologio…che non siano pure d’origine svizzera?), i nostri, alle 23.30 spaccate, terminano “SEVEN DEADLY SINS” e con questo il loro successful show.
Dopo questa esperienza capisco perfettamente perché i Flogging Molly abbiano venduto oltre un milione e mezzo di album e da oltre vent’anni portino la loro festa itinerante in giro per il mondo, con il loro mix unico di sonorità celtiche ben mischiate a potenti riff punkeggianti.
Ma ora è arrivato il momento di andare a recuperare mio fratello Manuel. Chissà dove sarà?

Sláinte!

MaXX “double X” Barzelatto per Radio City Trieste

crediti foto: Festival di Majano
local promoter: Azalea.it

MAJANO – Serata molto intensa al Festival di Majano; preceduti dai bravi “Broken Wings”, band udinese che ha ha portato sul palco un hard rock genuino indirizzato su sonorità 80s e 90s, arrivano on stage gli australiani di Sidney WOLFMOTHER, attivi da circa vent’anni e una delle migliori espressioni di un rock molto anni settanta con atmosfere psichedeliche e di quello che è diventato oramai un genere a se stante, lo “stoner rock” del quale sono, a tutti gli effetti, una band di culto.
Andrew Stockdale alla voce ed alla chitarra, Alex McConnell al basso, e Hamish Rosser alla batteria, hanno subito infiammato il pubblico di Majano con brani tratti dal loro ultimo album in studio “Rock Out” e le immancabili hit del passato come “Woman”, passando per pezzi oramai diventati dei loro classici come “Whola Lotta Rosie” o “Rock ‘n Roll”, tributando band storiche alle quali si sono decisamente ispirati come AC/DC e Led Zeppelin, ma senza dimenticare icone come Cream e Deep Purple delle quali si pecepiscono le “colorazioni” in molti momenti del loro set.
Sempre grintosi e coinvolgenti, completano la loro performance, sicuramente di alto livello, con un lunghissimo bis molto apprezzato dal pubblico presente.
Complimenti, quindi, agli organizzatori del Festival di Majano che sono riusciti a ritagliare, nella nostra regione, una data del tour europeo della band australiana, per la felicità degli estimatori del genere (e non).

Andrea “Mr Rock” Sivini per Radio City Trieste

UDINE – Alla fine di ogni concerto di Loreena McKennitt, ho come la sensazione di aver vissuto qualcosa di nuovo, di inaspettato, come una sorpresa.
Situazione bizzarra, a pensarci bene, in quanto nulla mi è sconosciuto.
Ma riflettendoci, però, e ascoltando anche i commenti tra il pubblico, scopro che non sono il solo a provare sensazioni particolari durante i suoi concerti.
L’origine di tutto questo penso sia dovuto al fatto che Loreena McKennitt ci ha sempre viziati e coccolati con le sue composizioni; la sua voce trascinante porta l’ascoltatore sempre in vetta tramite picchi notevoli e passando per frequenze e stati d’animo che ti fanno arrivare sulla cima della montagna, per poi gettarti nel vuoto planando con una delicata e lunga discesa in volo.
Ed ogni concerto è una sorpresa anche per gli arrangiamenti e gli adattamenti dei brani, curati e modificati a seconda delle esigenze dell’esibizione live.
Inoltre bisogna anche sottolineare che chi gioca un ruolo di primo piano in tutto questo è il suo fido Brian Hughes, che con i suoi plettri di ogni sorta (per chitarre, liuti o bouzouki), tutti strumenti suonati magistralmente, al momento giusto riesce a cucire tappeti sonori capaci di creare splendide atmosfere oniriche.
Nuovamente in regione, questa volta con il tour celebrativo di The mask and mirror (1994), che rimane la sua pubblicazione più conosciuta e che certamente le ha spalancato le porte al grande pubblico, la nostra musa ha saputo quindi ipnotizzarci nuovamente, e la folta platea, predisposta per l’occasione nel bellissimo piazzale del Castello di Udine (non ci poteva essere location migliore), si è gustata le due parti nelle quali era divisa la serata, in religioso silenzio.
La prima parte è stata dedicata ai suoi brani più belli e conosciuti, scelti da tutta la sua produzione, mentre la seconda, certamente quella più intensa e coinvolgete, interamente dedicata al disco citato poco fa, eseguito interamente e nell’esatta sequenza con cui è stato pubblicato.
Il tutto accompagnato da una piccola orchestra formata da cinque musicisti, tra i quali spiccano gli storici scudieri Caroline Lavelle (violoncello, voce, fisarmonica e flauto), e il violinista Hug Marsh.
Un ensemble che ha saputo magistralmente rievocare luoghi, situazioni ed atmosfere particolari, così presenti in ogni lavoro della McKennitt.

 

L’abbinamento location/artista ci è sembrato molto azzeccato, ed ha reso la performance una sorta di gemma incastonata alla perfezione nel calendario delle serate estive udinesi.
Un plauso anche all’ottima organizzazione di Azalea.it

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

 

Foto di Maicol Novara

UDINECalexico è il nome di una cittadina situata nel Sud della California, sulla linea di confine con il Messico.
Una frontiera ricca di storie e leggende, un luogo da caldo torrido e strade polverose, circondate da paesaggi aridi, dove l’unica vegetazione presente sono dei cactus e qualche cespuglio secco.
Questo nome, non a caso, è stato scelto da John Convertino e Joey Burns per il loro progetto musicale oramai vecchio di quasi trent’anni.
Un percorso artistico che ha coinvolto diversi generi musicali, capace di farci vivere sensazioni, alle volte, quasi sciamaniche.
Rock e Blues, Jazz e Folk, tradizione messicana con trombe e melodie Mariachi, che sono alla base delle loro composizioni definite “Tex-Mex”, termine USA coniato negli anni ’50 per identificare non solo questo genere musicale, ma l’incontro, in generale, degli usi e costumi delle genti del Texas e del Messico.
Ma la loro rotta però, salvo alcune eccezioni, li ha portati ancora più lontano, a far tappa verso territori situati più a Sud, spingendosi fin oltre il canale di Panama, dove la “Cumbia”, riproposta in alcune loro composizioni, è di casa.
I Calexico, di Tucson (Arizona), sono una piccola e magica orchestrina, acclamata da tutte platee del mondo, passata dalle nostre parti, purtroppo, poche volte.
Quindi un grosso grazie a Folkest ed alla sua organizzazione per averci permesso di fare questo viaggio in luoghi lontani e misteriosi, a bordo di un’immaginaria automobile americana degli anni ’60, sfrecciando lungo strade tracciate dal suono arido dalle loro chitarre, per sostare, a fine corsa, ad una fiesta di paese, al suono di malinconiche note profuse dalle trombe della sezione fiati.

Il ritmo preciso dettato della batteria, suonata da un Convertino con l’espressione perennemente compiaciuta, scandisce il tempo per tutta la durata del nostro viaggio.
Cumbia del Polvo e Harness the wind (entrambi da El Mirador del 2022, ultima loro produzione), sono solamente alcune delle tappe che vanno a comporre una nuova scaletta diversa ogni sera (quasi una rarità tra i loro colleghi).
Una scaletta che, inaspettatamente e quindi con grande sorpresa, ci propone una bellissima Under the wheel, suonata in modo suadente e delicato, tanto da rivelarsi ancora più bella e coinvolgente di come la conoscevamo, e quindi molto apprezzata dal numeroso pubblico presente.
Ma arriva anche Cumbia de Donde che, purtroppo, ci indica che le nostre strade ora si dividono, e noi, come gli autostoppisti presenti nei leggendari testi americani, scendiamo da questa vecchia macchina e salutiamo chi, gentilmente, ci ha dato questo passaggio, senza nemmeno conoscerci. Muchas gracias amigos, adios.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Matteo Coda

TRIESTE – Se vi dicessi che uno stadio può diventare una discoteca, una di quelle sale da ballo anni ‘90 che oramai non esistono più, mi credereste?
Noto qualche perplessità per quanto vi sto chiedendo, non vi sento convinti e questo perchè, probabilmente, domenica sera non siete stati presenti tra il folto pubblico che ha riempito lo Stadio Nereo Rocco di Trieste.
E’ risaputo che un tempio dello sport può accogliere concerti di ogni sorta, ma che domenica si trasformasse in una colorata bolgia di spensieratezza senza età, in pochi lo avrebbero immaginato.
Chissà quante volte qualcuno avrà già tentato un’impresa simile, cosa di non facile realizzazione, se non con l’immaginazione ed uno schiocco di dita.
Ovviamente, invece, nella pratica tutto va studiato nei minimi dettagli, dalle luci, all’impianto audio, dalle scenografie, agli allestimenti.
Vero è anche che il protagonista di tutto questo “paradiso musicale” se la gioca in casa, e parte sicuramente avvantaggiato grazie a quelle sue vene melodiche e compositive che da oltre trent’anni hanno sempre colto nel segno.
Penso ci sia ben poco da dire e commentare riguardo a Max Pezzali ed alle sue Hits, come recita lo slogan che accompagna questo suo nuovo giro, con ben dieci tappe nei più grandi stadi italiani, con partenza da Trieste, allo Stadio Rocco, cornice privilegiata grazie all’ottimo lavoro di Vigna Pr e FVG Live, che sono riusciti a portare nel capoluogo regionale la data zero del nuovo tour del nostro paladino pavese.
Da oltre trent’anni il menestrello della nostra adolescenza canta per tutti noi, ci ha fatto ballare, sognare, innamorare e credere nei sogni, nei nostri desideri, e lo ha fatto con semplicità ed allo stesso tempo con uno sguardo rivolto alla vita di tutti i giorni, dei giovani di ieri come a quelli di oggi, citando nelle sue canzoni luoghi, situazioni e linguaggi di uso comune.
Per comprendere al meglio il personaggio Max Pezzali e capire perchè ci piace, vi rimando all’articolo firmato dalla giornalista Elisa Russo, apparso su Il Piccolo  di domenica 9 giugno.

Lui è ancora qui, e lo fa in grande stile, come sempre, proseguendo una carriera costellata da innumerevoli successi. Tutti conosciamo almeno una delle sue canzoni, e per centrotrenta minuti ininterrotti, il nostro ha sciorinato i suoi brani più famosi, su un palco allestito con pupazzi e figure che hanno richiamato i testi di alcune mega hits degli anni passati.
Ma non ci sono solo luci ed effetti a rendere lo spettacolo ineguagliabile, anche la scelta dei brani ha il suo perchè, ed ecco che una scaletta tutt’altro che scontata, non tanto per i titoli scelti quanto per la sequenza di esecuzione durante la serata, diventa una sorpresa continua, a tratti inaspettata, proprio come un vero spettacolo dovrebbe essere.
Uno show avvincente, come lo è stata l’idea della filarmonica di due dozzine di elementi che, in apertura ed in chiusura di serata, con tanto di bandiere, ha salutato il pubblico dal palco assieme al nostro eroe.
Scelta azzeccata questa della banda, assieme alla quale, il caro Max, si era fatto accompagnare il giorno prima del concerto, a mò di “conquistatore”, per le vie del centro di Trieste, portando un saluto alla città.
Sei un grande Max…anzi, scusa…Sei un mito!

 

 

 

 

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

PORDENONE – Cari Ozrics, quanto tempo dall’ultima volta! Vi trovo bene, ed è sempre un piacere rivedersi!
E se passate nuovamente dalle nostre parti potevo non venirvi a salutare? Assolutamente no!
Eravamo in tanti, sabato scorso, a Pordenone al Capitol, ed anche se ne sono passati di anni, di dischi e di tournée da quando vi ho conosciuto e, in seguito, visto per la prima volta in versione live, come allora c’è sempre il caro Ed a tenere salde le redini della band, l’unico rimasto da quel lontano 1982, anno in cui il primo nucleo della gruppo si è riunito a Stonehenge, in occasione dell’omonimo “Free Festival”.
Da quel momento le fattezze di Erp hanno iniziato a prendere una forma antropomorfa, originata in chissà quale circostanza, ed in men che non si dica, è stato pronto ad aprirci le porte di quel suo mondo fantastico, illustrato magistralmente sulle copertine dei vostri dischi.
Ovviamente i tempi sono cambiati e gli anni sono passati velocemente, anche se sembra ieri il vostro primo passaggio italiano avvenuto nel 1994; ed invece sono ben trent’anni, festeggiati assieme in questa serata pordenonese.
Da quella volta ci sono stati innumerevoli passaggi in Regione, quasi sempre a Pordenone, prima presso il glorioso Rototom, poi al Deposito Giordani ed ora al Capitol, elegante ed interessante salotto artistico posto proprio in centro città.
Una nuova realtà culturale dove l’organizzazione ha ben pensato di inserirvi all’interno di un ricco e variegato programma capace di cogliere nel segno, coinvolgendo, interessando e richiamando alle sue porte diversi tipi di pubblico (se non ci credete visitate il sito capitolpordenone.com e date una sbirciata al ventaglio di proposte offerte).
Eh, ne abbiamo passate di storie assieme, in tutto questo tempo, cari Ozric Tentacles.
Le emozioni e le aspettative di un vostro concerto sono sempre le stesse, immutate come la prima volta, anche se oggi i ragazzi che un tempo affollavano i vostri spettacoli hanno tagliato i dreadlock, non indossano più tutte quelle magliette psichedeliche di allora (qualcuna ne sarà, però, saltata fuori dall’armadio appositamente per questa occasione), e gli “elementi catalizzatori” di un tempo sono stati sostituiti da qualche semplice birretta da assaporare con gli amici tra un brano e l’altro.

E se Ed, ormai da anni, è accompagnato sul palco dal figlio Silas, in mezzo al pubblico trovi sicuramente uno zio in compagnia del nipote ventenne, portato a scoprire, dal vivo, quel qualcosa di leggendario che, fino a quel momento, aveva apprezzato solamente su disco.
Da quando Erp vi ha indicato la via, la vostra quarantennale storia ci ha regalato qualcosa come venticinque dischi e continui ed estenuanti tour di spettacoli psicotropi; un cammino, un’evoluzione, che a partire dalla metà degli anni duemila vi ha fatto sterzare decisamente verso sonorità Trance di nuova generazione ed adeguare i vostri show con proiezioni caleidoscopiche di figure mistico-orientali, paesaggi naturali (nei quali appaiono funghi non proprio per uso commestibile), ma di chiaro riferimento alle vostre origini di “pensiero” ed ai vostri predecessori, ed amici, gli storici Gong.
Per tutta la durata del concerto ci avete cullato e ammaliato, ci avete fatto assaporare un po’ di tutto della vostra storia, compreso Lotus Unfolding (estratto dall’omonimo ultimo disco pubblicato un anno fa), senza dimenticare quello che, secondo me, è stato il vostro periodo più bello, (ovvero fine anni ‘80 ed inizio ’90), dal quale ci avete regalato Kick Muck e Ayurvedic (Pungent Effulgent del 1989), Eternal Wheel, Erpland e Sunscape (Erpland 1990), Sploosh! (Strangeitude 1991) ed anche qualcosa dei primi demo colorati pubblicati tra il 1985 ed il 1989, O-I e Sniffing Dog (rispettivamente da There is nothing e Tantric Obstacles).
Però, se mi è permesso, visto l’anniversario qualcosa di Arborescence (1994) potevate anche suonarcelo, no?!
Ciao Ozrics, ci si vede alla prossima!
Con infinita stima e riconoscenza.
Un amico che vi segue da quasi trent’anni.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

TRIESTE – L’atmosfera del bellissimo Politeama Rossetti è quella adatta ad accogliere una delle più importanti band di progressive rock (condito con una buona dose di folk) a quasi 5 anni dalla loro ultima esibizione nel capoluogo giuliano, i JETHRO TULL.
Le speranze dei tantissimi fans giunti anche da fuori regione (molti sloveni e croati oltre a qualche austriaco) sono andate completamente soddisfatte, non fosse altro che per la maestria ancora vivida e presente nell’uso del flauto traverso da parte di Ian Anderson, vero genio di questo strumento.
Assoli e passaggi musicali di altissimo livello eseguiti dal menestrello di Dumferline, spalleggiato da una straordinaria pletora di ottimi musicisti tra i quali ha spiccato sicuramente il chitarrista Joe Parrish-James, dal 2020 presenza fissa nel gruppo.
La scelta di presentare più di un terzo dei pezzi in scaletta tratto da lavori pubblicati dopo il 1980, e quindi più adatti alla vocalità oramai “ridotta” del musicista scozzese, ha portato anche all’inserimento di brani degli ultimi due lavori ” The Zealot Gene” e “RökFlöte”, oltre ad alcuni estratti completamente strumentali.
Ma non sono mancati i classici, da Cross-eyed Mary, l‘apertura del concerto, limitata, però, ad una sola strofa e ritornello, a We use to know, dove Anderson spiega, in maniera molto garbata e generosa, che la “somiglianza” con Hotel California degli Eagles non l’ha mai considerata un plagio ma piuttosto un tributo degli Eagles al pezzo in questione, brano che venne ascoltato dalla band californiana durante un tour fatto assieme ai Jethro Tull agli inizi degli anni 70.
Si prosegue con Heavy horses, tratta dall’omonimo album del 1978, e la “classica” Bourrée in E minor a chiudere la prima parte.
Dopo la pausa, cambio di atmosfere e filmati, con un‘impronta decisamente più dark, sino ad arrivare alla leggendaria Aqualung, purtroppo (opinione personale) eseguita in una versione forse troppo “camuffata” tanto da renderla quasi irriconoscibile ai più, anche perchè inserita in un mini-medley con Aquadiddley dove non era semplice riconoscerne i passaggi musicali, a parte le sei note iniziali.
Ma a fare felici tutti arriva il gran finale, con tanto di proiezione dell’arrivo di un treno enorme, ed assieme allo sbuffo della ciminiera la partenza del riff stra-conosciuto di Locomotive breath che, inoltre, “libera” tutto il pubblico, a quel punto già in piedi, dalla richiesta da parte della band di non eseguire registrazioni e foto durante il concerto, suggerimento seguito alla lettera da tutti gli spettatori presenti.
Un evento coi fiocchi, quindi, organizzato ottimamente da Vigna Pr, al quale non potevo mancare e che ha sicuramente soddisfatto tutta la platea presente, e non solo i vecchi „progsters“ come il sottoscritto.

Andrea “Mr. Rock” Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – Esattamente quarantacinque anni fa l’Italia assaporava un’inedita, quanto mai sperata, unione artistica tra poesia, musica d’autore e Rock.
Tutto lo stivale potè vivere in prima persona quell’esperienza, fino a quel momento unica, ma destinata ad essere solo un’apripista.
Un tour che girò il nostro paese per ben trentuno date, passando anche per Trieste, sempre al Teatro Rossetti, nella serata del 4 febbraio 1979 come ultimo capitolo della tourneè iniziata a Forlì il 21 dicembre dell’anno prima.
A testimonianza di quella serie di concerti, vennero allora pubblicati due vinili con brani registrati ai concerti di Bologna e Firenze.
Solo alcuni anni fa invece, restaurato e proiettato nei cinema poco prima della pandemia, il filmato del concerto genovese del 3 gennaio ’79, ed intitolato Il concerto ritrovato.
Ancora più recentemente invece è stata inserita su Youtube l’intera registrazione audio della serata triestina (Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 Bootleg inedito restaurato).
In città, come suppongo anche negli altri luoghi in cui quest’opera pionieristica ha fatto tappa, ancora oggi si parla di quanto allora era andato in scena ed il ricordo è talmente vivo da far rendere lucidi gli occhi di chi ha avuto la fortuna di essere presente.
Le strade di Fabrizio De Andrè e della Premiata Forneria Marconi si erano già incrociate tempo prima. La storia vuole che la scintilla sia partita da una visita di Faber alla band milanese, dopo un loro concerto a Nuoro.
In quell’occasione Di Cioccio mise la famosa “pulce nell’orecchio” all’affermato cantautore genovese per una collaborazione, anche se, a quest’ultimo, l’idea di andare in tour con un gruppo Rock  spaventava ma affascinava allo stesso tempo.
Proprio per questo motivo un tour assieme poteva diventare una grande avventura, come spiegato poi nel libro Amico Faber di Enzo Gentile del 2018.
Sono cambiate diverse cose da allora, e lo spettacolo non può, ovviamente, essere lo stesso di quel tempo.
Sul palco quattro dei musicisti della P.F.M. di allora (Di Cioccio, Premoli, Djivas e Fabbri), assieme ad altri giovani e talentuosi artisti del nuovo nucleo della formazione milanese, oltre agli ospiti Luca Zabbini e Michele Ascolese (chitarrista al fianco di De Andrè negli ultimi dieci anni di attività).
Ovviamente qualche cambiamento ha interessato anche l’aspetto musicale dello spettacolo che, nonostante abbia mantenuto gli arrangiamenti originali (sarebbe stato un sacrilegio cambiarli), per alcuni momenti ha lasciato spazio a sonorità più attuali.
Le emozioni tra il pubblico, composto da tre generazioni di spettatori, sono venute a galla già con le prime note di apertura dello spettacolo affidata ovviamente a Bocca di Rosa, mentre il culmine è stato toccato certamente con La canzone di Marinella, suonata impeccabilmente come accompagnamento alla voce registrata di De Andrè.
Il pubblico però pretende di ascoltare anche qualcosa della storica band di rock progressivo e la richiesta viene accolta in chiusura del concerto con l’esecuzione di E’ festa, unita alla perfezione con il leggendario tema di Impressioni di settembre eseguito da Premoli.
Inutile aggiungere altro, non potevamo pretendere di più come primo concerto dell’anno!
Uno speciale ringraziamento quindi all’organizzazione di Vigna Pr ed al Teatro Rossetti per un inizio anno davvero con il botto.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Beatrice Robles
Link utili
Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 (Bootleg inedito restaurato)
Fabrizio De André e Franz Di Cioccio – Trieste 1979 – INEDITO –

 

 

 

 

 

 

 

 

TRIESTE – La scommessa è stata vinta! Portare in una prestigiosa sala teatrale, il Rossetti, la musica della, forse, più importante metal band a livello mondiale, ed unirla sul palco ad un’orchestra sinfonica di 30 e passa elementi, oltre ai 4 musicisti „in elettrico“, non era impresa semplice ne soprattutto di sicuro successo.
Ed invece il „quasi“ sold-out (mancavano veramente pochissimi posti da riempire) di martedì sera nel salotto buono del capoluogo regionale ha premiato Luigi Vignando e la sua VignaPR per la lungimiranza nelle vedute musicali per questo nuovo progetto che, speriamo, non sia l’ultimo per un genere musicale, il rock/metal, che ancora tanto ha da dire e da far sentire.
Quattro musicisti metal serbi con accanto una batteria di musicisti classici armati di archi, fiati e percussioni, ci hanno fatto passare una straordinaria serata di ottima musica ma anche di tanti ricordi richiamati dalle note di classici tra i quali Master of puppets, One, Enter sandman ma anche Welcome home (Sanitarium) e l’immarcescibile Seek and destroy, brano storico tratto dal primissimo lavoro della band di Los Angeles.
Due ore letteralmente volate via tra rasoiate di chitarra e pennellate di violini, il tutto legato dalla voce di un cantante che anche nelle fattezze fisiche assomigliava al James Hetfield originale.
Pubblico entusiasta tanto che al termine del set musicale previsto ha richiesto a gran voce ulteriori pezzi, desiderio accolto, con un pò di stupore, da parte della band e dell’orchestra.
Bravi tutti, quindi, e la speranza di vedere ancora qualche serata „in Rock“ in una città che ha sicuramente le potenzialità ed i luoghi per far arrivare altre grandi, ma anche meno grandi, star della musica.

Andrea Rock Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – L’ultima volta che ho visto i Laibach dal vivo risale a quasi quattordici anni fa. E’ stata una scelta consapevole, la mia, per una pausa così lunga, in quanto avendoli già visti ben otto volte in poco meno di dieci anni, avevo bisogno di smaltire le tossine emozionali provocatemi dai loro spettacoli.
Non per nulla, in una recensione del 2004, descrivevo le loro esibizioni come “…un indigesto pugno nello stomaco che solo una volta digerito permetteva di comprendere ad apprezzare quanto appena visto”.
Dopo tanti anni sono ancora di questo avviso e, nonostante un loro spettacolo non lo ritengo adatto a tutti, penso comunque vadano visti almeno una volta.
Proprio per questo motivo ora, a bocce ferme, vorrei sapere quanti tra i presenti domenica sera conoscevano il collettivo artistico sloveno, ed erano consapevoli di cosa avrebbero visto.
In oltre quarant’anni di storia i Laibach hanno sempre presentato spettacoli molto particolari dove nulla è mai stato lasciato al caso, ed il loro nome è stato il punto di convergenza per diversi tipi di arti che si fondevano assieme creando qualcosa che andava ben oltre a quello che poteva essere un semplice concerto.
Non nuovi a rivisitazioni od interpretazioni realizzate secondo il loro punto di vista, i Laibach hanno intrapreso tourneè in tutto il mondo, sono stati la prima band a suonare in Corea del Nord, e sono da tempo uno dei fiori all’occhiello dell’etichetta discografica britannica Mute Records.
Nonostante la propria longevità però, la band slovena che porta il vecchio nome tedesco della capitale, ha suonato solamente quattro volte a Trieste. La prima nel maggio del 1995 al Teatro Miela per l’ Occupied Europe NATO Tour dal quale è stato realizzato un live, due volte al Teatro Sloveno nel febbraio del 2011 e nell’aprile del 2016, fino all’imponente passaggio attuale al Teatro Rossetti, per una rappresentazione sinfonica (realizzata a modo loro ovviamente), del romanzo storico Alamut dello scrittore sloveno (triestino di nascita) Vladimir Bartol.
Sul palco, per la trasposizione in musica della storia ambientata nella Persia dell’XI secolo, l’intera RTV Slovenia Symphony Orchestra, i due gruppi vocali Human Voice Ensemble di Teheran, ed il Gallina Vocal Group, l’orchestra femminile AccordiOna composta da ben dodici fisarmoniche, ed ovviamente loro, i Laibach, in formazione di cinque elementi.
E’ stata un’autentica opportunità questa, della quale possiamo ritenerci fortunati.
L’attenta organizzazione ad opera di Vigna PR e AND Promotions, in collaborazione con il Teatro Rossetti, hanno regalato al pubblico triestino un’anteprima assoluta. Infatti solo quattro le date per presentare questo spettacolo: Lubiana e Trieste, e poi ancora Francoforte e Zagabria.
Articolato e complesso, e non penso di sbagliare se aggiungo anche costoso nella produzione, Alamut ha avuto una gestazione molto lunga ed è nato da una collaborazione artistica tra menti slovene ed iraniane.
Da questo incontro, un percorso sinfonico di nove atti ha preso vita per infatuare la psiche attraverso il turbamento del senso dell’udito con l’ascolto di Sperimentazione, Isolazionismo ed Industrial, mentre l’occhio osserva rapito le immancabili creazioni visive che trasportano lo spettatore in dimensioni e luoghi non definiti.
Il tutto realizzato ad arte… come Laibach comandano.

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca