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UDINE – Alla fine di ogni concerto di Loreena McKennitt, ho come la sensazione di aver vissuto qualcosa di nuovo, di inaspettato, come una sorpresa.
Situazione bizzarra, a pensarci bene, in quanto nulla mi è sconosciuto.
Ma riflettendoci, però, e ascoltando anche i commenti tra il pubblico, scopro che non sono il solo a provare sensazioni particolari durante i suoi concerti.
L’origine di tutto questo penso sia dovuto al fatto che Loreena McKennitt ci ha sempre viziati e coccolati con le sue composizioni; la sua voce trascinante porta l’ascoltatore sempre in vetta tramite picchi notevoli e passando per frequenze e stati d’animo che ti fanno arrivare sulla cima della montagna, per poi gettarti nel vuoto planando con una delicata e lunga discesa in volo.
Ed ogni concerto è una sorpresa anche per gli arrangiamenti e gli adattamenti dei brani, curati e modificati a seconda delle esigenze dell’esibizione live.
Inoltre bisogna anche sottolineare che chi gioca un ruolo di primo piano in tutto questo è il suo fido Brian Hughes, che con i suoi plettri di ogni sorta (per chitarre, liuti o bouzouki), tutti strumenti suonati magistralmente, al momento giusto riesce a cucire tappeti sonori capaci di creare splendide atmosfere oniriche.
Nuovamente in regione, questa volta con il tour celebrativo di The mask and mirror (1994), che rimane la sua pubblicazione più conosciuta e che certamente le ha spalancato le porte al grande pubblico, la nostra musa ha saputo quindi ipnotizzarci nuovamente, e la folta platea, predisposta per l’occasione nel bellissimo piazzale del Castello di Udine (non ci poteva essere location migliore), si è gustata le due parti nelle quali era divisa la serata, in religioso silenzio.
La prima parte è stata dedicata ai suoi brani più belli e conosciuti, scelti da tutta la sua produzione, mentre la seconda, certamente quella più intensa e coinvolgete, interamente dedicata al disco citato poco fa, eseguito interamente e nell’esatta sequenza con cui è stato pubblicato.
Il tutto accompagnato da una piccola orchestra formata da cinque musicisti, tra i quali spiccano gli storici scudieri Caroline Lavelle (violoncello, voce, fisarmonica e flauto), e il violinista Hug Marsh.
Un ensemble che ha saputo magistralmente rievocare luoghi, situazioni ed atmosfere particolari, così presenti in ogni lavoro della McKennitt.

 

L’abbinamento location/artista ci è sembrato molto azzeccato, ed ha reso la performance una sorta di gemma incastonata alla perfezione nel calendario delle serate estive udinesi.
Un plauso anche all’ottima organizzazione di Azalea.it

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

 

Foto di Maicol Novara

UDINECalexico è il nome di una cittadina situata nel Sud della California, sulla linea di confine con il Messico.
Una frontiera ricca di storie e leggende, un luogo da caldo torrido e strade polverose, circondate da paesaggi aridi, dove l’unica vegetazione presente sono dei cactus e qualche cespuglio secco.
Questo nome, non a caso, è stato scelto da John Convertino e Joey Burns per il loro progetto musicale oramai vecchio di quasi trent’anni.
Un percorso artistico che ha coinvolto diversi generi musicali, capace di farci vivere sensazioni, alle volte, quasi sciamaniche.
Rock e Blues, Jazz e Folk, tradizione messicana con trombe e melodie Mariachi, che sono alla base delle loro composizioni definite “Tex-Mex”, termine USA coniato negli anni ’50 per identificare non solo questo genere musicale, ma l’incontro, in generale, degli usi e costumi delle genti del Texas e del Messico.
Ma la loro rotta però, salvo alcune eccezioni, li ha portati ancora più lontano, a far tappa verso territori situati più a Sud, spingendosi fin oltre il canale di Panama, dove la “Cumbia”, riproposta in alcune loro composizioni, è di casa.
I Calexico, di Tucson (Arizona), sono una piccola e magica orchestrina, acclamata da tutte platee del mondo, passata dalle nostre parti, purtroppo, poche volte.
Quindi un grosso grazie a Folkest ed alla sua organizzazione per averci permesso di fare questo viaggio in luoghi lontani e misteriosi, a bordo di un’immaginaria automobile americana degli anni ’60, sfrecciando lungo strade tracciate dal suono arido dalle loro chitarre, per sostare, a fine corsa, ad una fiesta di paese, al suono di malinconiche note profuse dalle trombe della sezione fiati.

Il ritmo preciso dettato della batteria, suonata da un Convertino con l’espressione perennemente compiaciuta, scandisce il tempo per tutta la durata del nostro viaggio.
Cumbia del Polvo e Harness the wind (entrambi da El Mirador del 2022, ultima loro produzione), sono solamente alcune delle tappe che vanno a comporre una nuova scaletta diversa ogni sera (quasi una rarità tra i loro colleghi).
Una scaletta che, inaspettatamente e quindi con grande sorpresa, ci propone una bellissima Under the wheel, suonata in modo suadente e delicato, tanto da rivelarsi ancora più bella e coinvolgente di come la conoscevamo, e quindi molto apprezzata dal numeroso pubblico presente.
Ma arriva anche Cumbia de Donde che, purtroppo, ci indica che le nostre strade ora si dividono, e noi, come gli autostoppisti presenti nei leggendari testi americani, scendiamo da questa vecchia macchina e salutiamo chi, gentilmente, ci ha dato questo passaggio, senza nemmeno conoscerci. Muchas gracias amigos, adios.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Matteo Coda

TRIESTE – Se vi dicessi che uno stadio può diventare una discoteca, una di quelle sale da ballo anni ‘90 che oramai non esistono più, mi credereste?
Noto qualche perplessità per quanto vi sto chiedendo, non vi sento convinti e questo perchè, probabilmente, domenica sera non siete stati presenti tra il folto pubblico che ha riempito lo Stadio Nereo Rocco di Trieste.
E’ risaputo che un tempio dello sport può accogliere concerti di ogni sorta, ma che domenica si trasformasse in una colorata bolgia di spensieratezza senza età, in pochi lo avrebbero immaginato.
Chissà quante volte qualcuno avrà già tentato un’impresa simile, cosa di non facile realizzazione, se non con l’immaginazione ed uno schiocco di dita.
Ovviamente, invece, nella pratica tutto va studiato nei minimi dettagli, dalle luci, all’impianto audio, dalle scenografie, agli allestimenti.
Vero è anche che il protagonista di tutto questo “paradiso musicale” se la gioca in casa, e parte sicuramente avvantaggiato grazie a quelle sue vene melodiche e compositive che da oltre trent’anni hanno sempre colto nel segno.
Penso ci sia ben poco da dire e commentare riguardo a Max Pezzali ed alle sue Hits, come recita lo slogan che accompagna questo suo nuovo giro, con ben dieci tappe nei più grandi stadi italiani, con partenza da Trieste, allo Stadio Rocco, cornice privilegiata grazie all’ottimo lavoro di Vigna Pr e FVG Live, che sono riusciti a portare nel capoluogo regionale la data zero del nuovo tour del nostro paladino pavese.
Da oltre trent’anni il menestrello della nostra adolescenza canta per tutti noi, ci ha fatto ballare, sognare, innamorare e credere nei sogni, nei nostri desideri, e lo ha fatto con semplicità ed allo stesso tempo con uno sguardo rivolto alla vita di tutti i giorni, dei giovani di ieri come a quelli di oggi, citando nelle sue canzoni luoghi, situazioni e linguaggi di uso comune.
Per comprendere al meglio il personaggio Max Pezzali e capire perchè ci piace, vi rimando all’articolo firmato dalla giornalista Elisa Russo, apparso su Il Piccolo  di domenica 9 giugno.

Lui è ancora qui, e lo fa in grande stile, come sempre, proseguendo una carriera costellata da innumerevoli successi. Tutti conosciamo almeno una delle sue canzoni, e per centrotrenta minuti ininterrotti, il nostro ha sciorinato i suoi brani più famosi, su un palco allestito con pupazzi e figure che hanno richiamato i testi di alcune mega hits degli anni passati.
Ma non ci sono solo luci ed effetti a rendere lo spettacolo ineguagliabile, anche la scelta dei brani ha il suo perchè, ed ecco che una scaletta tutt’altro che scontata, non tanto per i titoli scelti quanto per la sequenza di esecuzione durante la serata, diventa una sorpresa continua, a tratti inaspettata, proprio come un vero spettacolo dovrebbe essere.
Uno show avvincente, come lo è stata l’idea della filarmonica di due dozzine di elementi che, in apertura ed in chiusura di serata, con tanto di bandiere, ha salutato il pubblico dal palco assieme al nostro eroe.
Scelta azzeccata questa della banda, assieme alla quale, il caro Max, si era fatto accompagnare il giorno prima del concerto, a mò di “conquistatore”, per le vie del centro di Trieste, portando un saluto alla città.
Sei un grande Max…anzi, scusa…Sei un mito!

 

 

 

 

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

PORDENONE – Cari Ozrics, quanto tempo dall’ultima volta! Vi trovo bene, ed è sempre un piacere rivedersi!
E se passate nuovamente dalle nostre parti potevo non venirvi a salutare? Assolutamente no!
Eravamo in tanti, sabato scorso, a Pordenone al Capitol, ed anche se ne sono passati di anni, di dischi e di tournée da quando vi ho conosciuto e, in seguito, visto per la prima volta in versione live, come allora c’è sempre il caro Ed a tenere salde le redini della band, l’unico rimasto da quel lontano 1982, anno in cui il primo nucleo della gruppo si è riunito a Stonehenge, in occasione dell’omonimo “Free Festival”.
Da quel momento le fattezze di Erp hanno iniziato a prendere una forma antropomorfa, originata in chissà quale circostanza, ed in men che non si dica, è stato pronto ad aprirci le porte di quel suo mondo fantastico, illustrato magistralmente sulle copertine dei vostri dischi.
Ovviamente i tempi sono cambiati e gli anni sono passati velocemente, anche se sembra ieri il vostro primo passaggio italiano avvenuto nel 1994; ed invece sono ben trent’anni, festeggiati assieme in questa serata pordenonese.
Da quella volta ci sono stati innumerevoli passaggi in Regione, quasi sempre a Pordenone, prima presso il glorioso Rototom, poi al Deposito Giordani ed ora al Capitol, elegante ed interessante salotto artistico posto proprio in centro città.
Una nuova realtà culturale dove l’organizzazione ha ben pensato di inserirvi all’interno di un ricco e variegato programma capace di cogliere nel segno, coinvolgendo, interessando e richiamando alle sue porte diversi tipi di pubblico (se non ci credete visitate il sito capitolpordenone.com e date una sbirciata al ventaglio di proposte offerte).
Eh, ne abbiamo passate di storie assieme, in tutto questo tempo, cari Ozric Tentacles.
Le emozioni e le aspettative di un vostro concerto sono sempre le stesse, immutate come la prima volta, anche se oggi i ragazzi che un tempo affollavano i vostri spettacoli hanno tagliato i dreadlock, non indossano più tutte quelle magliette psichedeliche di allora (qualcuna ne sarà, però, saltata fuori dall’armadio appositamente per questa occasione), e gli “elementi catalizzatori” di un tempo sono stati sostituiti da qualche semplice birretta da assaporare con gli amici tra un brano e l’altro.

E se Ed, ormai da anni, è accompagnato sul palco dal figlio Silas, in mezzo al pubblico trovi sicuramente uno zio in compagnia del nipote ventenne, portato a scoprire, dal vivo, quel qualcosa di leggendario che, fino a quel momento, aveva apprezzato solamente su disco.
Da quando Erp vi ha indicato la via, la vostra quarantennale storia ci ha regalato qualcosa come venticinque dischi e continui ed estenuanti tour di spettacoli psicotropi; un cammino, un’evoluzione, che a partire dalla metà degli anni duemila vi ha fatto sterzare decisamente verso sonorità Trance di nuova generazione ed adeguare i vostri show con proiezioni caleidoscopiche di figure mistico-orientali, paesaggi naturali (nei quali appaiono funghi non proprio per uso commestibile), ma di chiaro riferimento alle vostre origini di “pensiero” ed ai vostri predecessori, ed amici, gli storici Gong.
Per tutta la durata del concerto ci avete cullato e ammaliato, ci avete fatto assaporare un po’ di tutto della vostra storia, compreso Lotus Unfolding (estratto dall’omonimo ultimo disco pubblicato un anno fa), senza dimenticare quello che, secondo me, è stato il vostro periodo più bello, (ovvero fine anni ‘80 ed inizio ’90), dal quale ci avete regalato Kick Muck e Ayurvedic (Pungent Effulgent del 1989), Eternal Wheel, Erpland e Sunscape (Erpland 1990), Sploosh! (Strangeitude 1991) ed anche qualcosa dei primi demo colorati pubblicati tra il 1985 ed il 1989, O-I e Sniffing Dog (rispettivamente da There is nothing e Tantric Obstacles).
Però, se mi è permesso, visto l’anniversario qualcosa di Arborescence (1994) potevate anche suonarcelo, no?!
Ciao Ozrics, ci si vede alla prossima!
Con infinita stima e riconoscenza.
Un amico che vi segue da quasi trent’anni.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

TRIESTE – L’atmosfera del bellissimo Politeama Rossetti è quella adatta ad accogliere una delle più importanti band di progressive rock (condito con una buona dose di folk) a quasi 5 anni dalla loro ultima esibizione nel capoluogo giuliano, i JETHRO TULL.
Le speranze dei tantissimi fans giunti anche da fuori regione (molti sloveni e croati oltre a qualche austriaco) sono andate completamente soddisfatte, non fosse altro che per la maestria ancora vivida e presente nell’uso del flauto traverso da parte di Ian Anderson, vero genio di questo strumento.
Assoli e passaggi musicali di altissimo livello eseguiti dal menestrello di Dumferline, spalleggiato da una straordinaria pletora di ottimi musicisti tra i quali ha spiccato sicuramente il chitarrista Joe Parrish-James, dal 2020 presenza fissa nel gruppo.
La scelta di presentare più di un terzo dei pezzi in scaletta tratto da lavori pubblicati dopo il 1980, e quindi più adatti alla vocalità oramai “ridotta” del musicista scozzese, ha portato anche all’inserimento di brani degli ultimi due lavori ” The Zealot Gene” e “RökFlöte”, oltre ad alcuni estratti completamente strumentali.
Ma non sono mancati i classici, da Cross-eyed Mary, l‘apertura del concerto, limitata, però, ad una sola strofa e ritornello, a We use to know, dove Anderson spiega, in maniera molto garbata e generosa, che la “somiglianza” con Hotel California degli Eagles non l’ha mai considerata un plagio ma piuttosto un tributo degli Eagles al pezzo in questione, brano che venne ascoltato dalla band californiana durante un tour fatto assieme ai Jethro Tull agli inizi degli anni 70.
Si prosegue con Heavy horses, tratta dall’omonimo album del 1978, e la “classica” Bourrée in E minor a chiudere la prima parte.
Dopo la pausa, cambio di atmosfere e filmati, con un‘impronta decisamente più dark, sino ad arrivare alla leggendaria Aqualung, purtroppo (opinione personale) eseguita in una versione forse troppo “camuffata” tanto da renderla quasi irriconoscibile ai più, anche perchè inserita in un mini-medley con Aquadiddley dove non era semplice riconoscerne i passaggi musicali, a parte le sei note iniziali.
Ma a fare felici tutti arriva il gran finale, con tanto di proiezione dell’arrivo di un treno enorme, ed assieme allo sbuffo della ciminiera la partenza del riff stra-conosciuto di Locomotive breath che, inoltre, “libera” tutto il pubblico, a quel punto già in piedi, dalla richiesta da parte della band di non eseguire registrazioni e foto durante il concerto, suggerimento seguito alla lettera da tutti gli spettatori presenti.
Un evento coi fiocchi, quindi, organizzato ottimamente da Vigna Pr, al quale non potevo mancare e che ha sicuramente soddisfatto tutta la platea presente, e non solo i vecchi „progsters“ come il sottoscritto.

Andrea “Mr. Rock” Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – Esattamente quarantacinque anni fa l’Italia assaporava un’inedita, quanto mai sperata, unione artistica tra poesia, musica d’autore e Rock.
Tutto lo stivale potè vivere in prima persona quell’esperienza, fino a quel momento unica, ma destinata ad essere solo un’apripista.
Un tour che girò il nostro paese per ben trentuno date, passando anche per Trieste, sempre al Teatro Rossetti, nella serata del 4 febbraio 1979 come ultimo capitolo della tourneè iniziata a Forlì il 21 dicembre dell’anno prima.
A testimonianza di quella serie di concerti, vennero allora pubblicati due vinili con brani registrati ai concerti di Bologna e Firenze.
Solo alcuni anni fa invece, restaurato e proiettato nei cinema poco prima della pandemia, il filmato del concerto genovese del 3 gennaio ’79, ed intitolato Il concerto ritrovato.
Ancora più recentemente invece è stata inserita su Youtube l’intera registrazione audio della serata triestina (Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 Bootleg inedito restaurato).
In città, come suppongo anche negli altri luoghi in cui quest’opera pionieristica ha fatto tappa, ancora oggi si parla di quanto allora era andato in scena ed il ricordo è talmente vivo da far rendere lucidi gli occhi di chi ha avuto la fortuna di essere presente.
Le strade di Fabrizio De Andrè e della Premiata Forneria Marconi si erano già incrociate tempo prima. La storia vuole che la scintilla sia partita da una visita di Faber alla band milanese, dopo un loro concerto a Nuoro.
In quell’occasione Di Cioccio mise la famosa “pulce nell’orecchio” all’affermato cantautore genovese per una collaborazione, anche se, a quest’ultimo, l’idea di andare in tour con un gruppo Rock  spaventava ma affascinava allo stesso tempo.
Proprio per questo motivo un tour assieme poteva diventare una grande avventura, come spiegato poi nel libro Amico Faber di Enzo Gentile del 2018.
Sono cambiate diverse cose da allora, e lo spettacolo non può, ovviamente, essere lo stesso di quel tempo.
Sul palco quattro dei musicisti della P.F.M. di allora (Di Cioccio, Premoli, Djivas e Fabbri), assieme ad altri giovani e talentuosi artisti del nuovo nucleo della formazione milanese, oltre agli ospiti Luca Zabbini e Michele Ascolese (chitarrista al fianco di De Andrè negli ultimi dieci anni di attività).
Ovviamente qualche cambiamento ha interessato anche l’aspetto musicale dello spettacolo che, nonostante abbia mantenuto gli arrangiamenti originali (sarebbe stato un sacrilegio cambiarli), per alcuni momenti ha lasciato spazio a sonorità più attuali.
Le emozioni tra il pubblico, composto da tre generazioni di spettatori, sono venute a galla già con le prime note di apertura dello spettacolo affidata ovviamente a Bocca di Rosa, mentre il culmine è stato toccato certamente con La canzone di Marinella, suonata impeccabilmente come accompagnamento alla voce registrata di De Andrè.
Il pubblico però pretende di ascoltare anche qualcosa della storica band di rock progressivo e la richiesta viene accolta in chiusura del concerto con l’esecuzione di E’ festa, unita alla perfezione con il leggendario tema di Impressioni di settembre eseguito da Premoli.
Inutile aggiungere altro, non potevamo pretendere di più come primo concerto dell’anno!
Uno speciale ringraziamento quindi all’organizzazione di Vigna Pr ed al Teatro Rossetti per un inizio anno davvero con il botto.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Beatrice Robles
Link utili
Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 (Bootleg inedito restaurato)
Fabrizio De André e Franz Di Cioccio – Trieste 1979 – INEDITO –

 

 

 

 

 

 

 

 

TRIESTE – La scommessa è stata vinta! Portare in una prestigiosa sala teatrale, il Rossetti, la musica della, forse, più importante metal band a livello mondiale, ed unirla sul palco ad un’orchestra sinfonica di 30 e passa elementi, oltre ai 4 musicisti „in elettrico“, non era impresa semplice ne soprattutto di sicuro successo.
Ed invece il „quasi“ sold-out (mancavano veramente pochissimi posti da riempire) di martedì sera nel salotto buono del capoluogo regionale ha premiato Luigi Vignando e la sua VignaPR per la lungimiranza nelle vedute musicali per questo nuovo progetto che, speriamo, non sia l’ultimo per un genere musicale, il rock/metal, che ancora tanto ha da dire e da far sentire.
Quattro musicisti metal serbi con accanto una batteria di musicisti classici armati di archi, fiati e percussioni, ci hanno fatto passare una straordinaria serata di ottima musica ma anche di tanti ricordi richiamati dalle note di classici tra i quali Master of puppets, One, Enter sandman ma anche Welcome home (Sanitarium) e l’immarcescibile Seek and destroy, brano storico tratto dal primissimo lavoro della band di Los Angeles.
Due ore letteralmente volate via tra rasoiate di chitarra e pennellate di violini, il tutto legato dalla voce di un cantante che anche nelle fattezze fisiche assomigliava al James Hetfield originale.
Pubblico entusiasta tanto che al termine del set musicale previsto ha richiesto a gran voce ulteriori pezzi, desiderio accolto, con un pò di stupore, da parte della band e dell’orchestra.
Bravi tutti, quindi, e la speranza di vedere ancora qualche serata „in Rock“ in una città che ha sicuramente le potenzialità ed i luoghi per far arrivare altre grandi, ma anche meno grandi, star della musica.

Andrea Rock Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – L’ultima volta che ho visto i Laibach dal vivo risale a quasi quattordici anni fa. E’ stata una scelta consapevole, la mia, per una pausa così lunga, in quanto avendoli già visti ben otto volte in poco meno di dieci anni, avevo bisogno di smaltire le tossine emozionali provocatemi dai loro spettacoli.
Non per nulla, in una recensione del 2004, descrivevo le loro esibizioni come “…un indigesto pugno nello stomaco che solo una volta digerito permetteva di comprendere ad apprezzare quanto appena visto”.
Dopo tanti anni sono ancora di questo avviso e, nonostante un loro spettacolo non lo ritengo adatto a tutti, penso comunque vadano visti almeno una volta.
Proprio per questo motivo ora, a bocce ferme, vorrei sapere quanti tra i presenti domenica sera conoscevano il collettivo artistico sloveno, ed erano consapevoli di cosa avrebbero visto.
In oltre quarant’anni di storia i Laibach hanno sempre presentato spettacoli molto particolari dove nulla è mai stato lasciato al caso, ed il loro nome è stato il punto di convergenza per diversi tipi di arti che si fondevano assieme creando qualcosa che andava ben oltre a quello che poteva essere un semplice concerto.
Non nuovi a rivisitazioni od interpretazioni realizzate secondo il loro punto di vista, i Laibach hanno intrapreso tourneè in tutto il mondo, sono stati la prima band a suonare in Corea del Nord, e sono da tempo uno dei fiori all’occhiello dell’etichetta discografica britannica Mute Records.
Nonostante la propria longevità però, la band slovena che porta il vecchio nome tedesco della capitale, ha suonato solamente quattro volte a Trieste. La prima nel maggio del 1995 al Teatro Miela per l’ Occupied Europe NATO Tour dal quale è stato realizzato un live, due volte al Teatro Sloveno nel febbraio del 2011 e nell’aprile del 2016, fino all’imponente passaggio attuale al Teatro Rossetti, per una rappresentazione sinfonica (realizzata a modo loro ovviamente), del romanzo storico Alamut dello scrittore sloveno (triestino di nascita) Vladimir Bartol.
Sul palco, per la trasposizione in musica della storia ambientata nella Persia dell’XI secolo, l’intera RTV Slovenia Symphony Orchestra, i due gruppi vocali Human Voice Ensemble di Teheran, ed il Gallina Vocal Group, l’orchestra femminile AccordiOna composta da ben dodici fisarmoniche, ed ovviamente loro, i Laibach, in formazione di cinque elementi.
E’ stata un’autentica opportunità questa, della quale possiamo ritenerci fortunati.
L’attenta organizzazione ad opera di Vigna PR e AND Promotions, in collaborazione con il Teatro Rossetti, hanno regalato al pubblico triestino un’anteprima assoluta. Infatti solo quattro le date per presentare questo spettacolo: Lubiana e Trieste, e poi ancora Francoforte e Zagabria.
Articolato e complesso, e non penso di sbagliare se aggiungo anche costoso nella produzione, Alamut ha avuto una gestazione molto lunga ed è nato da una collaborazione artistica tra menti slovene ed iraniane.
Da questo incontro, un percorso sinfonico di nove atti ha preso vita per infatuare la psiche attraverso il turbamento del senso dell’udito con l’ascolto di Sperimentazione, Isolazionismo ed Industrial, mentre l’occhio osserva rapito le immancabili creazioni visive che trasportano lo spettatore in dimensioni e luoghi non definiti.
Il tutto realizzato ad arte… come Laibach comandano.

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

ZAGABRIA – Ho la testa pesante, la sento leggermente gonfia. Mi fischiano le orecchie. Eppure il volume non era esagerato ed i suoni erano perfetti.
Non c’è stato niente che potesse disturbare dal punto di vista dell’acustica, anzi tutto è stato perfetto.
Probabilmente sarà la stanchezza del viaggio a darmi questa sensazione. Rientrare a notte fonda, aver chiuso gli occhi solo a momenti, certamente non ha aiutato.
Il leggero vociare di chi stava seduto davanti mi arrivava ai sedili posteriori dove qualcuno, di tanto in tanto, sospirava o sbuffava nel sonno.
Erano anni che non facevo una trasferta così per un concerto: una piccola combriccola andata a divertirsi in terra straniera, unendo l’utile al dilettevole, fondendo una piccola gita in una capitale europea ad un live musicale.
Solo qualche ora fa, fuori dall’Arena, fiumi di persone stavano confluendo da diverse località per assistere al concerto. Potrà sembrare impossibile, quasi come un segnale di buon auspicio, prima di entrare, da un autobus della linea cittadina, vediamo scendere lo stesso personaggio che avevamo incrociato in centro a Zagabria un paio di ore prima, nei pressi di Piazza Jelacica. Dall’abbigliamento indossato avevamo capito subito che le nostre destinazioni per la serata sarebbero state le stesse.
All’ingresso rimango sorpreso dal sistema elettronico dei tornelli, non tanto per la convalida del biglietto, che oramai ho già sperimentato in altre situazioni, ma dal display impostato con l’immagine dell’evento della serata.
Una volta dentro la tappa obbligata è il consueto banchetto del merchandising ufficiale, con la solita offerta di articoli oramai a prezzi da capogiro, allo stesso livello di un biglietto d’ingresso alla serata. La buona sorte però, vuole che al bar ci sia qualcosa di molto più interessante.
In queste occasioni i rincari sono notevoli, nelle zone ristoro non si scherza ed alla fine una serata potrebbe avere lo stesso costo di un’ora con una escort, che poi si complimenta con te per la prestazione offerta.
La sorpresa sta nei bicchieri di plastica forniti con le bibite. Contenitori per i quali paghi la cauzione e che non sei tenuto a restituire. Nulla di strano se non fosse che i bicchieri sono serigrafati con i motivi del tour della band, identica sorpresa avuta a Monaco nel 2013, sempre per i Depeche Mode e mai più vista in altre circostanze.
Ed anche questa volta, a dieci anni di distanza, i modelli sono due. Inutile spiegare il motivo per cui la corsa al banco delle bibite è stata immediata, non appena abbiamo scoperto la sorpresa.
L’entrata nel salone dell’arena non ci regala nulla di nuovo, ma il colpo d’occhio e l’atmosfera hanno sempre un certo fascino.
Il brusio, il mare di persone disposte in ogni dove, quella presenza di aria viziata che si accompagna alle luci bianche dalla luminosità poco più che crepuscolare e artificiale, mi rimandano con la memoria a qualche film di cui ricordo ben poco, mentre l’impianto audio trasmette dell’aggressiva musica Techno, decisamente fuori luogo.
La struttura è piena in ogni dove. L’ultimo di noi che ha scelto di aggregarsi è riuscito, un paio di mesi fa, a trovare un biglietto per puro caso.
Noi altri siamo ai nostri posti quasi frontali al palco, sulla curva, visuale perfetta, smarcata da angolazioni fastidiose, e tra poco comincerà la festa tanto attesa.
Memento Mori è veramente un bel disco e non ha tardato ad entrare nei nostri cuori. Aldilà della sua attesa, è un disco che piace e sorprende per essere un’ulteriore conferma della band inglese.
Ma quello che tristemente ci affascina di più, penso sia la circostanza della scomparsa di Andy Fletcher, avvenuta nel maggio del 2022.
A partire dal titolo, Memento Mori e dalla copertina in bianco e nero ritraente due funebri omaggi floreali, creati per sembrare due bianche coppie di ali d’angelo, questo disco ha chiaramente il sapore di un omaggio, di un saluto, qualcosa di dovuto nei confronti di chi, per tanti anni, è stato nel bene e nel male un indispensabile compagno di viaggio.
Nulla è lasciato al caso in MM, piccola cripta in cui le voci sono trattate con delicatezza e le musiche ci ricordano il percorso sino a qui svolto dai nostri paladini.
Un viaggio emotivo in cui non mancano riferimenti e richiami ad altri lidi, un’avventura in cui si incontrano fredde sonorità robotiche della scuola tedesca, secondo il vangelo dei pioneristici Kraftwerk, fino a far riemergere dalla memoria le bellissime favole musicali Trip Hop raccontateci dei Massive Attack.
Ascoltare MM è come passeggiare in un bellissimo prato pieno di fiori colorati, tutti da ammirare, tutti da raccogliere, nessuno escluso.
Il momento di vedere nuovamente i Depeche Mode all’opera è arrivato, le luci in sala si sono spente. Il pubblico li acclama. A lato del palco, una porta si apre per alcune volte sui corridoi illuminati del backstage. Si vedono delle sagome entrare e prendere posto a lato del palco, pronti a salire quei pochi gradini che li separano dallo stage.
Impeccabili negli abiti di scena, eleganti, leggermente truccati in volto con un tocco di mascara sugli occhi, loro, Martin Gore e Dave Gahan, oramai soli in un duo, si accompagnano anche questa volta con l’indispensabile Peter Gordeno e l’insostituibile Christian Eigner.

Una volta saliti, alle loro spalle, un megaschermo con un’imponente M al centro a ricordare il titolo del disco.
Il saluto al pubblico con questo tour, avviene con il brano My cosmos is mine, traccia di apertura del disco, e non poteva essere altrimenti.
Subito dopo arriva Wagging tongue, secondo brano di Memento Mori.
Saranno veramente pochi i brani di questo lavoro a venir presentati live in questo tour.
In perfetto stile DM, lo spettacolo non tarda a prendere quota e ad avvolgere il pubblico. Martin si alterna come di consueto tra chitarre e tastiere, come sempre Dave farà la parte del trascinatore.
Una scaletta “quasi” perfetta, in cui troviamo anche Walking in my shoes, seguita da It’s no good.
Nel buio dell’arena, i fasci colorati dei fari illuminano il pubblico. Tra gli spettatori gli immancabili schermi degli smartphones sparsi qua e là, mappano i vari settori. Le note che si accompagnano ai video introducono il prossimo brano, Everything counts.
L’arrangiamento iniziale lascia pochi dubbi per la prosecuzione del brano estratto da Construction time again del 1983, che sarà poi seguito da Precious e da My favourite stranger (anche questo da Memento Mori).
Dopo la parentesi acustica di Martin da solo sul palco assieme alla sua chitarra per Strangelove, entrano in scena dei palloncini di colore nero.
Si canta tutti in coro Happy Birthday per Mr Gore che proprio questa sera compie gli anni.
Il concerto prosegue, la festa continua. Ghosts again irrompe dagli amplificatori con le sue inconfondibili note. Si tratta del bellissimo singolo di Memento Mori, uno dei brani chiave di questo disco. Una commovente ballata, accompagnata da un azzeccato video realizzato in bianco e nero, che viene proiettato sullo schermo.
Un filmato dall’impatto fortissimo, ambientato in un contesto metropolitano in cui, Martin e Dave, sono concentrati, uno contro l’altro, in una partita a scacchi, come ne “Il settimo sigillo” di Bergman.
A pain that i’m used to si sprigiona in tutta la sua splendida arroganza nella versione live, prima della bellissima World in my eyes, ovvero l’atteso saluto ad Andrew Fletcher, il cui volto appare sullo schermo.

Lo spettacolo ha ancora qualche carta da svelare e, prima dei consueti bis, regala la magica Enjoy the silence conclusa da Martin a suonarne ripetutamente il riff, in mezzo al pubblico, in cima alla pedana del palco.
Sta per arrivare la botta conclusiva prima del definitivo congedo dal pubblico, giusto il tempo per prendere un po’ di fiato che è già il momento del rush finale con Condemnation suonata in versione acustica.
Ma ora si dovrà ballare, Eigner inizia a scandire il tempo in quattro ed il pubblico sa già quale sarà il prossimo brano. Dopo alcune battute il batterista austriaco aggiunge colpi sulle pelli della batteria per permettere, all’inconfondibile intro di tastiere di Just can’t get enough di presentarsi al pubblico. Si canterà per tutto il brano.
Con Let me down again si assiste al consueto rito che si rinnova ad ogni concerto quando, sul finale del brano, Gahan si pone a bordo palco ad osservare il pubblico, alza le braccia al cielo e fa vibrare le mani.
La gente sa cosa dovrà fare, non aspetta altro e risponde alla chiamata, e dal palco viene dato il via facendo oscillare le braccia da un lato all’altro.
Lo spettacolo, il colpo d’occhio che si viene a creare tra gli spalti ed il parterre, ti da la sensazione di stare su di una zattera alla deriva in un mare in tempesta, e salgono le lacrime per una scena così emozionante.

Siamo un esercito. Stanchi, sudati, senza fiato e senza voce, ma un poca di forza ci rimane per l’ultimo giro di giostra.
Oramai ne manca solamente una alla lista, ed eccola, introdotta dal riff di chitarra Rock Blues: la chiusura spetta a Personal Jesus.
A luci accese gli occhi fanno male, abituati al buio del concerto. Storditi ed esausti, le forze per acclamare un’ultima volta, comunque non mancano.
Sul palco quattro eroi che rispondono ai nomi di Martin, Dave, Peter e Christian ricambiano con affetto e soddisfazione.
Lo showbiz detta regole severe, non è affatto gentile. Impone orari e calendari a lui più comodi. Non concede libera scelta, possibilità di alcuno sgarro o cambio di programma.
Deve essere massacrante sopportare tutto questo per mesi, per anni, per tutta una vita, ma questa volta però, alla fine di tutto, ho come l’impressione che a tenere testa alle sue volontà, ci sia qualcosa di più forte. Qualcosa di più profondo che riesce a sopportare le sue leggi ed almeno per una volta, andarci oltre.

Gli amici del Red Bridge Group per Angelo Fator, in sua memoria
Foto di Cristiano Pellizzaro e Piero Udovicic

 

TRIESTE – Nei mesi estivi c’è sempre voglia di qualcosa di fresco e gustoso da assaporare, e nulla è meglio di un buonissimo gelato da prendere all’aperto, di sera, in compagnia di tanti amici.
La “cremeria” del Teatro Miela ci ha deliziati questa volta con l’offerta speciale di un prelibato semifreddo ai gusti Swing e Jazz, guarnito con topping di Jive ed un buonissimo biscottino italiano dal sapore American Style anni ’50.
L’offerta era valida però solamente per la serata di domenica scorsa, ovvero per l’ultimo appuntamento del Miela Musica Live, serie di eventi estivi realizzati dal noto teatro situato sulle rive triestine ed inseriti nel programma estivo di Trieste Estate.
L’attesa ed il pubblico sono stati quelli delle grandi occasioni, e non poteva essere altrimenti visti i protagonisti della serata, ovvero Ray Gelato (nome d’arte di Ray Keith Irwin) ed i suoi Giants.
Una band composta da sei elementi che per una sera ci hanno fatto rivivere, tra le mura del Castello di San Giusto, le atmosfere dei club d’oltre oceano, quelle di quasi un secolo fa, quelle delle piccole orchestrine guidate dai grandi maestri dello Swing, quelle dei film americani che ci hanno fatto sognare.
Assente da Trieste dal febbraio del 2019, anche questa volta Ray Gelato ci ha fatto ballare sin dalle prime note, ed allo scandire del tempo all’inizio di ogni brano, con il classico “one, two and one, two, three”, il “crooner” ha fatto partire la sua orchestrina al ritmo dalla batteria suonata dal pazzesco Marti’ Elias. Risultato: pubblico estasiato che abbandona le sedie per potersi divertire e ballare liberamente!
Mi è impossibile non spendere ancora qualche parola per il drummer, groove coinvolgente, suono preciso ma mai troppo esuberante da sbilanciare gli equilibri dello spettacolo, grande musicista!
Nelle serate di Ray Gelato trovano spazio tutti i più grandi autori ed interpreti del genere da lui proposto e quindi si passa da Dean Martin ad un dovuto tributo a Tony Bennett (scomparso alcuni giorni fa), fino ai nostri Carosone, Buscaglione e l’immancabile brano “Just a Gigolò” che tutti conosciamo.
E anche questa serata è andata, ma con trepidazione attendiamo di conoscere i prossimi appuntamenti stagionali del Teatro Miela, visto che da sempre ci sorprende e delizia con artisti curiosi ed ottimi spettacoli. Chissà cosa bolle in pentola per i prossimi mesi…!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Giuseppe Vergara