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TRIESTE – L’atmosfera del bellissimo Politeama Rossetti è quella adatta ad accogliere una delle più importanti band di progressive rock (condito con una buona dose di folk) a quasi 5 anni dalla loro ultima esibizione nel capoluogo giuliano, i JETHRO TULL.
Le speranze dei tantissimi fans giunti anche da fuori regione (molti sloveni e croati oltre a qualche austriaco) sono andate completamente soddisfatte, non fosse altro che per la maestria ancora vivida e presente nell’uso del flauto traverso da parte di Ian Anderson, vero genio di questo strumento.
Assoli e passaggi musicali di altissimo livello eseguiti dal menestrello di Dumferline, spalleggiato da una straordinaria pletora di ottimi musicisti tra i quali ha spiccato sicuramente il chitarrista Joe Parrish-James, dal 2020 presenza fissa nel gruppo.
La scelta di presentare più di un terzo dei pezzi in scaletta tratto da lavori pubblicati dopo il 1980, e quindi più adatti alla vocalità oramai “ridotta” del musicista scozzese, ha portato anche all’inserimento di brani degli ultimi due lavori ” The Zealot Gene” e “RökFlöte”, oltre ad alcuni estratti completamente strumentali.
Ma non sono mancati i classici, da Cross-eyed Mary, l‘apertura del concerto, limitata, però, ad una sola strofa e ritornello, a We use to know, dove Anderson spiega, in maniera molto garbata e generosa, che la “somiglianza” con Hotel California degli Eagles non l’ha mai considerata un plagio ma piuttosto un tributo degli Eagles al pezzo in questione, brano che venne ascoltato dalla band californiana durante un tour fatto assieme ai Jethro Tull agli inizi degli anni 70.
Si prosegue con Heavy horses, tratta dall’omonimo album del 1978, e la “classica” Bourrée in E minor a chiudere la prima parte.
Dopo la pausa, cambio di atmosfere e filmati, con un‘impronta decisamente più dark, sino ad arrivare alla leggendaria Aqualung, purtroppo (opinione personale) eseguita in una versione forse troppo “camuffata” tanto da renderla quasi irriconoscibile ai più, anche perchè inserita in un mini-medley con Aquadiddley dove non era semplice riconoscerne i passaggi musicali, a parte le sei note iniziali.
Ma a fare felici tutti arriva il gran finale, con tanto di proiezione dell’arrivo di un treno enorme, ed assieme allo sbuffo della ciminiera la partenza del riff stra-conosciuto di Locomotive breath che, inoltre, “libera” tutto il pubblico, a quel punto già in piedi, dalla richiesta da parte della band di non eseguire registrazioni e foto durante il concerto, suggerimento seguito alla lettera da tutti gli spettatori presenti.
Un evento coi fiocchi, quindi, organizzato ottimamente da Vigna Pr, al quale non potevo mancare e che ha sicuramente soddisfatto tutta la platea presente, e non solo i vecchi „progsters“ come il sottoscritto.

Andrea “Mr. Rock” Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – Esattamente quarantacinque anni fa l’Italia assaporava un’inedita, quanto mai sperata, unione artistica tra poesia, musica d’autore e Rock.
Tutto lo stivale potè vivere in prima persona quell’esperienza, fino a quel momento unica, ma destinata ad essere solo un’apripista.
Un tour che girò il nostro paese per ben trentuno date, passando anche per Trieste, sempre al Teatro Rossetti, nella serata del 4 febbraio 1979 come ultimo capitolo della tourneè iniziata a Forlì il 21 dicembre dell’anno prima.
A testimonianza di quella serie di concerti, vennero allora pubblicati due vinili con brani registrati ai concerti di Bologna e Firenze.
Solo alcuni anni fa invece, restaurato e proiettato nei cinema poco prima della pandemia, il filmato del concerto genovese del 3 gennaio ’79, ed intitolato Il concerto ritrovato.
Ancora più recentemente invece è stata inserita su Youtube l’intera registrazione audio della serata triestina (Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 Bootleg inedito restaurato).
In città, come suppongo anche negli altri luoghi in cui quest’opera pionieristica ha fatto tappa, ancora oggi si parla di quanto allora era andato in scena ed il ricordo è talmente vivo da far rendere lucidi gli occhi di chi ha avuto la fortuna di essere presente.
Le strade di Fabrizio De Andrè e della Premiata Forneria Marconi si erano già incrociate tempo prima. La storia vuole che la scintilla sia partita da una visita di Faber alla band milanese, dopo un loro concerto a Nuoro.
In quell’occasione Di Cioccio mise la famosa “pulce nell’orecchio” all’affermato cantautore genovese per una collaborazione, anche se, a quest’ultimo, l’idea di andare in tour con un gruppo Rock  spaventava ma affascinava allo stesso tempo.
Proprio per questo motivo un tour assieme poteva diventare una grande avventura, come spiegato poi nel libro Amico Faber di Enzo Gentile del 2018.
Sono cambiate diverse cose da allora, e lo spettacolo non può, ovviamente, essere lo stesso di quel tempo.
Sul palco quattro dei musicisti della P.F.M. di allora (Di Cioccio, Premoli, Djivas e Fabbri), assieme ad altri giovani e talentuosi artisti del nuovo nucleo della formazione milanese, oltre agli ospiti Luca Zabbini e Michele Ascolese (chitarrista al fianco di De Andrè negli ultimi dieci anni di attività).
Ovviamente qualche cambiamento ha interessato anche l’aspetto musicale dello spettacolo che, nonostante abbia mantenuto gli arrangiamenti originali (sarebbe stato un sacrilegio cambiarli), per alcuni momenti ha lasciato spazio a sonorità più attuali.
Le emozioni tra il pubblico, composto da tre generazioni di spettatori, sono venute a galla già con le prime note di apertura dello spettacolo affidata ovviamente a Bocca di Rosa, mentre il culmine è stato toccato certamente con La canzone di Marinella, suonata impeccabilmente come accompagnamento alla voce registrata di De Andrè.
Il pubblico però pretende di ascoltare anche qualcosa della storica band di rock progressivo e la richiesta viene accolta in chiusura del concerto con l’esecuzione di E’ festa, unita alla perfezione con il leggendario tema di Impressioni di settembre eseguito da Premoli.
Inutile aggiungere altro, non potevamo pretendere di più come primo concerto dell’anno!
Uno speciale ringraziamento quindi all’organizzazione di Vigna Pr ed al Teatro Rossetti per un inizio anno davvero con il botto.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Beatrice Robles
Link utili
Fabrizio De André e PFM – Live Trieste 1979 (Bootleg inedito restaurato)
Fabrizio De André e Franz Di Cioccio – Trieste 1979 – INEDITO –

 

 

 

 

 

 

 

 

TRIESTE – La scommessa è stata vinta! Portare in una prestigiosa sala teatrale, il Rossetti, la musica della, forse, più importante metal band a livello mondiale, ed unirla sul palco ad un’orchestra sinfonica di 30 e passa elementi, oltre ai 4 musicisti „in elettrico“, non era impresa semplice ne soprattutto di sicuro successo.
Ed invece il „quasi“ sold-out (mancavano veramente pochissimi posti da riempire) di martedì sera nel salotto buono del capoluogo regionale ha premiato Luigi Vignando e la sua VignaPR per la lungimiranza nelle vedute musicali per questo nuovo progetto che, speriamo, non sia l’ultimo per un genere musicale, il rock/metal, che ancora tanto ha da dire e da far sentire.
Quattro musicisti metal serbi con accanto una batteria di musicisti classici armati di archi, fiati e percussioni, ci hanno fatto passare una straordinaria serata di ottima musica ma anche di tanti ricordi richiamati dalle note di classici tra i quali Master of puppets, One, Enter sandman ma anche Welcome home (Sanitarium) e l’immarcescibile Seek and destroy, brano storico tratto dal primissimo lavoro della band di Los Angeles.
Due ore letteralmente volate via tra rasoiate di chitarra e pennellate di violini, il tutto legato dalla voce di un cantante che anche nelle fattezze fisiche assomigliava al James Hetfield originale.
Pubblico entusiasta tanto che al termine del set musicale previsto ha richiesto a gran voce ulteriori pezzi, desiderio accolto, con un pò di stupore, da parte della band e dell’orchestra.
Bravi tutti, quindi, e la speranza di vedere ancora qualche serata „in Rock“ in una città che ha sicuramente le potenzialità ed i luoghi per far arrivare altre grandi, ma anche meno grandi, star della musica.

Andrea Rock Sivini per Radio City Trieste

TRIESTE – L’ultima volta che ho visto i Laibach dal vivo risale a quasi quattordici anni fa. E’ stata una scelta consapevole, la mia, per una pausa così lunga, in quanto avendoli già visti ben otto volte in poco meno di dieci anni, avevo bisogno di smaltire le tossine emozionali provocatemi dai loro spettacoli.
Non per nulla, in una recensione del 2004, descrivevo le loro esibizioni come “…un indigesto pugno nello stomaco che solo una volta digerito permetteva di comprendere ad apprezzare quanto appena visto”.
Dopo tanti anni sono ancora di questo avviso e, nonostante un loro spettacolo non lo ritengo adatto a tutti, penso comunque vadano visti almeno una volta.
Proprio per questo motivo ora, a bocce ferme, vorrei sapere quanti tra i presenti domenica sera conoscevano il collettivo artistico sloveno, ed erano consapevoli di cosa avrebbero visto.
In oltre quarant’anni di storia i Laibach hanno sempre presentato spettacoli molto particolari dove nulla è mai stato lasciato al caso, ed il loro nome è stato il punto di convergenza per diversi tipi di arti che si fondevano assieme creando qualcosa che andava ben oltre a quello che poteva essere un semplice concerto.
Non nuovi a rivisitazioni od interpretazioni realizzate secondo il loro punto di vista, i Laibach hanno intrapreso tourneè in tutto il mondo, sono stati la prima band a suonare in Corea del Nord, e sono da tempo uno dei fiori all’occhiello dell’etichetta discografica britannica Mute Records.
Nonostante la propria longevità però, la band slovena che porta il vecchio nome tedesco della capitale, ha suonato solamente quattro volte a Trieste. La prima nel maggio del 1995 al Teatro Miela per l’ Occupied Europe NATO Tour dal quale è stato realizzato un live, due volte al Teatro Sloveno nel febbraio del 2011 e nell’aprile del 2016, fino all’imponente passaggio attuale al Teatro Rossetti, per una rappresentazione sinfonica (realizzata a modo loro ovviamente), del romanzo storico Alamut dello scrittore sloveno (triestino di nascita) Vladimir Bartol.
Sul palco, per la trasposizione in musica della storia ambientata nella Persia dell’XI secolo, l’intera RTV Slovenia Symphony Orchestra, i due gruppi vocali Human Voice Ensemble di Teheran, ed il Gallina Vocal Group, l’orchestra femminile AccordiOna composta da ben dodici fisarmoniche, ed ovviamente loro, i Laibach, in formazione di cinque elementi.
E’ stata un’autentica opportunità questa, della quale possiamo ritenerci fortunati.
L’attenta organizzazione ad opera di Vigna PR e AND Promotions, in collaborazione con il Teatro Rossetti, hanno regalato al pubblico triestino un’anteprima assoluta. Infatti solo quattro le date per presentare questo spettacolo: Lubiana e Trieste, e poi ancora Francoforte e Zagabria.
Articolato e complesso, e non penso di sbagliare se aggiungo anche costoso nella produzione, Alamut ha avuto una gestazione molto lunga ed è nato da una collaborazione artistica tra menti slovene ed iraniane.
Da questo incontro, un percorso sinfonico di nove atti ha preso vita per infatuare la psiche attraverso il turbamento del senso dell’udito con l’ascolto di Sperimentazione, Isolazionismo ed Industrial, mentre l’occhio osserva rapito le immancabili creazioni visive che trasportano lo spettatore in dimensioni e luoghi non definiti.
Il tutto realizzato ad arte… come Laibach comandano.

 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

ZAGABRIA – Ho la testa pesante, la sento leggermente gonfia. Mi fischiano le orecchie. Eppure il volume non era esagerato ed i suoni erano perfetti.
Non c’è stato niente che potesse disturbare dal punto di vista dell’acustica, anzi tutto è stato perfetto.
Probabilmente sarà la stanchezza del viaggio a darmi questa sensazione. Rientrare a notte fonda, aver chiuso gli occhi solo a momenti, certamente non ha aiutato.
Il leggero vociare di chi stava seduto davanti mi arrivava ai sedili posteriori dove qualcuno, di tanto in tanto, sospirava o sbuffava nel sonno.
Erano anni che non facevo una trasferta così per un concerto: una piccola combriccola andata a divertirsi in terra straniera, unendo l’utile al dilettevole, fondendo una piccola gita in una capitale europea ad un live musicale.
Solo qualche ora fa, fuori dall’Arena, fiumi di persone stavano confluendo da diverse località per assistere al concerto. Potrà sembrare impossibile, quasi come un segnale di buon auspicio, prima di entrare, da un autobus della linea cittadina, vediamo scendere lo stesso personaggio che avevamo incrociato in centro a Zagabria un paio di ore prima, nei pressi di Piazza Jelacica. Dall’abbigliamento indossato avevamo capito subito che le nostre destinazioni per la serata sarebbero state le stesse.
All’ingresso rimango sorpreso dal sistema elettronico dei tornelli, non tanto per la convalida del biglietto, che oramai ho già sperimentato in altre situazioni, ma dal display impostato con l’immagine dell’evento della serata.
Una volta dentro la tappa obbligata è il consueto banchetto del merchandising ufficiale, con la solita offerta di articoli oramai a prezzi da capogiro, allo stesso livello di un biglietto d’ingresso alla serata. La buona sorte però, vuole che al bar ci sia qualcosa di molto più interessante.
In queste occasioni i rincari sono notevoli, nelle zone ristoro non si scherza ed alla fine una serata potrebbe avere lo stesso costo di un’ora con una escort, che poi si complimenta con te per la prestazione offerta.
La sorpresa sta nei bicchieri di plastica forniti con le bibite. Contenitori per i quali paghi la cauzione e che non sei tenuto a restituire. Nulla di strano se non fosse che i bicchieri sono serigrafati con i motivi del tour della band, identica sorpresa avuta a Monaco nel 2013, sempre per i Depeche Mode e mai più vista in altre circostanze.
Ed anche questa volta, a dieci anni di distanza, i modelli sono due. Inutile spiegare il motivo per cui la corsa al banco delle bibite è stata immediata, non appena abbiamo scoperto la sorpresa.
L’entrata nel salone dell’arena non ci regala nulla di nuovo, ma il colpo d’occhio e l’atmosfera hanno sempre un certo fascino.
Il brusio, il mare di persone disposte in ogni dove, quella presenza di aria viziata che si accompagna alle luci bianche dalla luminosità poco più che crepuscolare e artificiale, mi rimandano con la memoria a qualche film di cui ricordo ben poco, mentre l’impianto audio trasmette dell’aggressiva musica Techno, decisamente fuori luogo.
La struttura è piena in ogni dove. L’ultimo di noi che ha scelto di aggregarsi è riuscito, un paio di mesi fa, a trovare un biglietto per puro caso.
Noi altri siamo ai nostri posti quasi frontali al palco, sulla curva, visuale perfetta, smarcata da angolazioni fastidiose, e tra poco comincerà la festa tanto attesa.
Memento Mori è veramente un bel disco e non ha tardato ad entrare nei nostri cuori. Aldilà della sua attesa, è un disco che piace e sorprende per essere un’ulteriore conferma della band inglese.
Ma quello che tristemente ci affascina di più, penso sia la circostanza della scomparsa di Andy Fletcher, avvenuta nel maggio del 2022.
A partire dal titolo, Memento Mori e dalla copertina in bianco e nero ritraente due funebri omaggi floreali, creati per sembrare due bianche coppie di ali d’angelo, questo disco ha chiaramente il sapore di un omaggio, di un saluto, qualcosa di dovuto nei confronti di chi, per tanti anni, è stato nel bene e nel male un indispensabile compagno di viaggio.
Nulla è lasciato al caso in MM, piccola cripta in cui le voci sono trattate con delicatezza e le musiche ci ricordano il percorso sino a qui svolto dai nostri paladini.
Un viaggio emotivo in cui non mancano riferimenti e richiami ad altri lidi, un’avventura in cui si incontrano fredde sonorità robotiche della scuola tedesca, secondo il vangelo dei pioneristici Kraftwerk, fino a far riemergere dalla memoria le bellissime favole musicali Trip Hop raccontateci dei Massive Attack.
Ascoltare MM è come passeggiare in un bellissimo prato pieno di fiori colorati, tutti da ammirare, tutti da raccogliere, nessuno escluso.
Il momento di vedere nuovamente i Depeche Mode all’opera è arrivato, le luci in sala si sono spente. Il pubblico li acclama. A lato del palco, una porta si apre per alcune volte sui corridoi illuminati del backstage. Si vedono delle sagome entrare e prendere posto a lato del palco, pronti a salire quei pochi gradini che li separano dallo stage.
Impeccabili negli abiti di scena, eleganti, leggermente truccati in volto con un tocco di mascara sugli occhi, loro, Martin Gore e Dave Gahan, oramai soli in un duo, si accompagnano anche questa volta con l’indispensabile Peter Gordeno e l’insostituibile Christian Eigner.

Una volta saliti, alle loro spalle, un megaschermo con un’imponente M al centro a ricordare il titolo del disco.
Il saluto al pubblico con questo tour, avviene con il brano My cosmos is mine, traccia di apertura del disco, e non poteva essere altrimenti.
Subito dopo arriva Wagging tongue, secondo brano di Memento Mori.
Saranno veramente pochi i brani di questo lavoro a venir presentati live in questo tour.
In perfetto stile DM, lo spettacolo non tarda a prendere quota e ad avvolgere il pubblico. Martin si alterna come di consueto tra chitarre e tastiere, come sempre Dave farà la parte del trascinatore.
Una scaletta “quasi” perfetta, in cui troviamo anche Walking in my shoes, seguita da It’s no good.
Nel buio dell’arena, i fasci colorati dei fari illuminano il pubblico. Tra gli spettatori gli immancabili schermi degli smartphones sparsi qua e là, mappano i vari settori. Le note che si accompagnano ai video introducono il prossimo brano, Everything counts.
L’arrangiamento iniziale lascia pochi dubbi per la prosecuzione del brano estratto da Construction time again del 1983, che sarà poi seguito da Precious e da My favourite stranger (anche questo da Memento Mori).
Dopo la parentesi acustica di Martin da solo sul palco assieme alla sua chitarra per Strangelove, entrano in scena dei palloncini di colore nero.
Si canta tutti in coro Happy Birthday per Mr Gore che proprio questa sera compie gli anni.
Il concerto prosegue, la festa continua. Ghosts again irrompe dagli amplificatori con le sue inconfondibili note. Si tratta del bellissimo singolo di Memento Mori, uno dei brani chiave di questo disco. Una commovente ballata, accompagnata da un azzeccato video realizzato in bianco e nero, che viene proiettato sullo schermo.
Un filmato dall’impatto fortissimo, ambientato in un contesto metropolitano in cui, Martin e Dave, sono concentrati, uno contro l’altro, in una partita a scacchi, come ne “Il settimo sigillo” di Bergman.
A pain that i’m used to si sprigiona in tutta la sua splendida arroganza nella versione live, prima della bellissima World in my eyes, ovvero l’atteso saluto ad Andrew Fletcher, il cui volto appare sullo schermo.

Lo spettacolo ha ancora qualche carta da svelare e, prima dei consueti bis, regala la magica Enjoy the silence conclusa da Martin a suonarne ripetutamente il riff, in mezzo al pubblico, in cima alla pedana del palco.
Sta per arrivare la botta conclusiva prima del definitivo congedo dal pubblico, giusto il tempo per prendere un po’ di fiato che è già il momento del rush finale con Condemnation suonata in versione acustica.
Ma ora si dovrà ballare, Eigner inizia a scandire il tempo in quattro ed il pubblico sa già quale sarà il prossimo brano. Dopo alcune battute il batterista austriaco aggiunge colpi sulle pelli della batteria per permettere, all’inconfondibile intro di tastiere di Just can’t get enough di presentarsi al pubblico. Si canterà per tutto il brano.
Con Let me down again si assiste al consueto rito che si rinnova ad ogni concerto quando, sul finale del brano, Gahan si pone a bordo palco ad osservare il pubblico, alza le braccia al cielo e fa vibrare le mani.
La gente sa cosa dovrà fare, non aspetta altro e risponde alla chiamata, e dal palco viene dato il via facendo oscillare le braccia da un lato all’altro.
Lo spettacolo, il colpo d’occhio che si viene a creare tra gli spalti ed il parterre, ti da la sensazione di stare su di una zattera alla deriva in un mare in tempesta, e salgono le lacrime per una scena così emozionante.

Siamo un esercito. Stanchi, sudati, senza fiato e senza voce, ma un poca di forza ci rimane per l’ultimo giro di giostra.
Oramai ne manca solamente una alla lista, ed eccola, introdotta dal riff di chitarra Rock Blues: la chiusura spetta a Personal Jesus.
A luci accese gli occhi fanno male, abituati al buio del concerto. Storditi ed esausti, le forze per acclamare un’ultima volta, comunque non mancano.
Sul palco quattro eroi che rispondono ai nomi di Martin, Dave, Peter e Christian ricambiano con affetto e soddisfazione.
Lo showbiz detta regole severe, non è affatto gentile. Impone orari e calendari a lui più comodi. Non concede libera scelta, possibilità di alcuno sgarro o cambio di programma.
Deve essere massacrante sopportare tutto questo per mesi, per anni, per tutta una vita, ma questa volta però, alla fine di tutto, ho come l’impressione che a tenere testa alle sue volontà, ci sia qualcosa di più forte. Qualcosa di più profondo che riesce a sopportare le sue leggi ed almeno per una volta, andarci oltre.

Gli amici del Red Bridge Group per Angelo Fator, in sua memoria
Foto di Cristiano Pellizzaro e Piero Udovicic

 

TRIESTE – Nei mesi estivi c’è sempre voglia di qualcosa di fresco e gustoso da assaporare, e nulla è meglio di un buonissimo gelato da prendere all’aperto, di sera, in compagnia di tanti amici.
La “cremeria” del Teatro Miela ci ha deliziati questa volta con l’offerta speciale di un prelibato semifreddo ai gusti Swing e Jazz, guarnito con topping di Jive ed un buonissimo biscottino italiano dal sapore American Style anni ’50.
L’offerta era valida però solamente per la serata di domenica scorsa, ovvero per l’ultimo appuntamento del Miela Musica Live, serie di eventi estivi realizzati dal noto teatro situato sulle rive triestine ed inseriti nel programma estivo di Trieste Estate.
L’attesa ed il pubblico sono stati quelli delle grandi occasioni, e non poteva essere altrimenti visti i protagonisti della serata, ovvero Ray Gelato (nome d’arte di Ray Keith Irwin) ed i suoi Giants.
Una band composta da sei elementi che per una sera ci hanno fatto rivivere, tra le mura del Castello di San Giusto, le atmosfere dei club d’oltre oceano, quelle di quasi un secolo fa, quelle delle piccole orchestrine guidate dai grandi maestri dello Swing, quelle dei film americani che ci hanno fatto sognare.
Assente da Trieste dal febbraio del 2019, anche questa volta Ray Gelato ci ha fatto ballare sin dalle prime note, ed allo scandire del tempo all’inizio di ogni brano, con il classico “one, two and one, two, three”, il “crooner” ha fatto partire la sua orchestrina al ritmo dalla batteria suonata dal pazzesco Marti’ Elias. Risultato: pubblico estasiato che abbandona le sedie per potersi divertire e ballare liberamente!
Mi è impossibile non spendere ancora qualche parola per il drummer, groove coinvolgente, suono preciso ma mai troppo esuberante da sbilanciare gli equilibri dello spettacolo, grande musicista!
Nelle serate di Ray Gelato trovano spazio tutti i più grandi autori ed interpreti del genere da lui proposto e quindi si passa da Dean Martin ad un dovuto tributo a Tony Bennett (scomparso alcuni giorni fa), fino ai nostri Carosone, Buscaglione e l’immancabile brano “Just a Gigolò” che tutti conosciamo.
E anche questa serata è andata, ma con trepidazione attendiamo di conoscere i prossimi appuntamenti stagionali del Teatro Miela, visto che da sempre ci sorprende e delizia con artisti curiosi ed ottimi spettacoli. Chissà cosa bolle in pentola per i prossimi mesi…!

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Giuseppe Vergara

TRIESTE – Talvolta capitano delle occasioni da prendere al volo, opportunità da non farsi sfuggire, situazioni per le quali abbiamo la possibilità di assistere ad esibizioni di autentici fenomeni, che non è detto però possano ritornare dalle nostre parti .
Nello specifico, per la serata in questione, qualcuno è venuto appositamente da fuori città, macinando centinaia e centinaia di chilometri.
In un periodo in cui si punta prevalentemente a spettacoli di tribute e cover band che, senza nulla togliere, hanno forse saturato la piazza, abbiamo comunque ancora la fortuna di poter contare su realtà che proseguono con il loro percorso di ricerca ed offerta di artisti e spettacoli originali.
Lachy Doley è un giovane australiano, un organista moderno appartenente alla sfera del mondo del Rock, uno che ha già fatto parlare tanto di sé  e del suo modo di suonare, tanto da essersi aggiudicato il titolo di “Jimi  Hendrix dell’Hammond”.
Tra il pubblico molti i nomi noti delle scena musicale triestina e non, tutti pronti a godere delle sue incursioni sulle tastiere che, per un soffio, causa il temporale pomeridiano sulla città, stavano quasi per essere annullate.
Giove Pluvio però non ha fatto i conti con lo staff del Teatro Miela, organizzatore dell’evento che rientra nella rassegna Miela Music Live a sua volta inserita nel calendario estivo del Trieste Estate.
Con mezz’ora di ritardo rispetto al previsto, dopo gli ultimi accorgimenti messi a punto da parte dei tecnici, lo spettacolo ha comunque inizio .
Direttamente dagli antipodi del globo terrestre, ecco un power trio che scuote le mura del Castello di San Giusto con ben due ore di ottima musica… e che musica signori!
Sound compatto, groove da ipnosi, anima da vendere, il Lachy Doley Group, oltre al leader che dona il nome al progetto, vede sul palco basso e batteria d’alto livello.
Per lo più divenuto celebre grazie ai filmati che si trovano sul web, Doley cattura e sorprende per la verve, l’energia ed il modo di suonare e di interpretare i brani celebri della storia del Rock, che sceglie di eseguire per omaggiare,  a suo modo, i grandi della musica (Hendrix, Lennon, Winwood).
Ammetto di non averlo mai conosciuto prima che il Miela ufficializzasse questa data, ma ho letteralmente adorato l’interpretazione del genere da lui proposto ed il suono dell’organo, suonato realmente in maniera assurda …beh, mi ha veramente tramortito.
Credo che in parecchi, anzi, tutti noi, stasera siamo usciti dalle mura del Castello con un insolito entusiasmo; abbiamo colto la palla al balzo, non ci siamo lasciati sfuggire quest’opportunità, e abbiamo fatto bene!
Ah si…peccato per chi non c’era…

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Giuseppe Vergara

TRIESTE – Quanto ci siamo emozionati durante questa bellissima serata? A quanti di noi le lacrime hanno riempito gli occhi?
Ora alzino la mano quelli che le hanno trattenute. Adesso invece mani alzate per quelli che le hanno lasciate andare.
Nulla di cui vergognarsi, le emozioni fanno parte della nostra vita e la musica è emozione.
Rendere omaggio ad un grande artista non è mai facile, ci si ritrova sempre con la spada di Damocle pronta a colpire, soprattutto se si tratta di un vero artista, uno di quelli che hanno lasciato il segno, uno che ha saputo rappresentare pensiero e anima attraverso splendidi versi poetici, vestiti con trame musicali che calzano a pennello in ogni occasione.
Questa volta però non si correva alcun rischio, non poteva che essere un successo annunciato, una tranquilla partita giocata senza alcun timore; Perchè nessuno sa (e può) cantare Battiato come Alice. (Questa frase non è mia, è  stata riportata dagli organizzatori  Vigna Pr  sulla loro pagina Facebook al termine della serata).
Possiamo dire il contrario? Assolutamente no, perchè nel corso della sua lunga carriera, Alice  è stata interprete e ha duettato con il Maestro siciliano rendendo celebri i suoi brani anche fuori dai confini nazionali, e quindi chi meglio di lei per omaggiare Franco Battiato, scomparso nel maggio di due anni fa, lasciando un enorme vuoto dentro di noi?
La serata, programmata al Castello di San Giusto per la rassegna Hot in the city ed organizzata dai già citati Vigna Pr e Good Vibrations Entertainment, ha però strizzato l’occhio alla nostra città per due motivi.
Il primo, il più storico, riporta alla memoria un giovane Battiato (forse al suo primo passaggio a Trieste), proprio nel maniero posto sul nostro colle.
Era il 18 luglio del 1975 nell’ambito di una tre giorni musicale. Quindi non solo non ci poteva essere luogo più azzeccato, ma sono pronto a scommettere che certamente tra il pubblico di oggi, qualcuno era presente anche all’epoca.
Secondo, proprio da Trieste, questa volta al Teatro Rossetti  il 15 febbraio del 2016, Battiato e Alice debuttavano con un tour teatrale che, come da previsione, fece sold out già in prevendita.Non vado oltre con i ricordi, mi fermo qui e passo alla cronaca della serata, nella quale Alice (Carla Bissi all’anagrafe), ha seguìto una bellissima scaletta composta da brani scelti con attenzione e posizionati in un crescendo di intensità ed emozioni.
Una set list dalla quale sono stati lasciati fuori alcuni brani forse  fin troppo attesi dal pubblico, altri invece scelti per ripercorrere le sue interpretazioni, i loro duetti e la discografia di Battiato.
Quindi Eri con me e Veleni, Povera patria e L’animale, Summer on a solitary beach ed ovviamente I treni di Tozeur, fino a raggiungere l’apice in chiusura di set con il trittico composto da La stagione dell’amore, E ti vengo a Cercare (brano tratto da Fisiognomica del 1988 e rivisto nel 1996 dai C.S.I. nel disco Linea Gotica con un cameo vocale di Battiato sul finire del brano) e La cura.
Sul palco, assieme ad Alice ed alla sua voce, il pianoforte suonato dal maestro Carlo Guaitoli (per oltre due decadi al fianco di Battiato e presente a Trieste nel citato tour del 2016), e la giovane e talentuosa violoncellista friulana Chiara Trentin, per la quale penso sia opportuno spendere alcune parole in più.
Nata a Udine nei primi anni novanta, Chiara studia violoncello al conservatorio dell’omonima città e si laurea in Germania presso la prestigiosa Hockschule di Mannheim. Lo scorso ottobre ha presentato il suo progetto da solista “Violoncellula” alla Concertgebouw di Amsterdam. Il disco è stato commissionato dal festival della Cello Biennale di Amsterdam, nella sezione dell’Anner Bjilsma Award, vinto dal Maestro Giovanni Sollima. L’intero progetto è stato realizzato con un violoncello elettrico a sei corde, ammirato dal pubblico di Trieste durante i bis di fine serata.
Tre artisti che hanno saputo catturare il pubblico, rendere palpabile l’atmosfera, far emergere emozioni e far vibrare le nostre anime per tutti i novanta minuti di concerto.
C’è ancora tempo per un ritorno sul palco per un bis e per deliziare il pubblico con tre brani: Chanson egocentrique, Per Elisa e L’era del cinghiale bianco, brano con cui Alice e Battiato aprivano i loro concerti del 2016.
Chiudo qui, ogni altra parola sarebbe di troppo.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca e dall’archivio di Cristiano Pellizzaro

TRIESTE – Finalmente Zucchero nuovamente in concerto a Trieste.
Sono passati quasi sedici anni dall’ultima volta che l’abbiamo sentito suonare qui “da noi”, nel capoluogo regionale, anche se un minimo di speranza che l’attesa potesse terminare da un momento all’altro era già balzata nei nostri cuori un anno fa, quando il suo tour aveva fatto tappa a Palmanova dopo ben dieci anni di assenza dalla nostra Regione.
L’ottimo colpo messo a segno dallo grande squadra di Azalea (fortunatamente ci son loro ad organizzare questi eventi), ha fatto sì che per Zucchero si potesse prenotare la splendida cornice di Piazza Unità d’Italia a Trieste per ben due serate. Inutile dire che, nonostante il doppio appuntamento, la corsa al biglietto iniziata sin dal primo momento, ha lasciato ben poco agli indecisi dell’ultimo minuto.
Così, con questo gradito doppio ritorno, sono ritornati anche i grandi eventi live nel salotto buono triestino grazie alla rassegna Live in Trieste che, una volta partita per altri luoghi la carovana Fornaciari, vedrà un altro grande nome della musica italiana esibirsi nello stesso luogo: Biagio Antonacci sabato 15 luglio.
Ma veniamo a noi, al primo dei due concerti triestini, quello al quale abbiamo avuto modo di prendere parte. Uno spettacolo molto generoso (più di due ore e mezza senza interruzioni), composto da una scaletta tutt’altro che scontata dove, a gran sorpresa, sono apparsi anche brani da molto tempo lasciati nel cassetto in sostituzione di altri divenuti nel corso delle varie tournee fin troppo abituali.
Cose, queste, che permettono ad uno spettacolo di rinnovarsi e mantenere una gradita genuinità. Non sono, però, nemmeno mancate le sorprese, almeno in questa prima serata, come l’apparizione sul palco della figlia Irene.
Mi piacerebbe poter andare per ordine, ma l’ispirazione per redigere la mia cronaca è un fiume in piena, ed è meglio che non perda la corrente.
Come da programma Zucchero si congeda dal pubblico lasciando il proprio copricapo sull’asta, sopra al microfono, accompagnando il gesto dal motto di Marvin Gaye “Ovunque io appoggi il mio cappello, quella è casa mia”, e usato dal nostro artista in segno di saluto e ringraziamento verso il pubblico e le varie località che lo accolgono.
Oramai Sugar ha suonato in tutto il mondo, l’avrà girato chissà quante volte a tal punto da essere uno di casa ovunque, uno con il quale ci si dà del tu. Tanto è vero che in diversi, tra il pubblico, lo chiamano a gran voce addirittura Adelmo, ovvero il suo nome di battesimo (“Adelmo è un nome da contadino e Zucchero da musicista. Sono sempre io, le due facce della stessa medaglia” da Tutto Compact n. 3 del 1989, testi a cura di Stefano Bianchi). Ecco quindi svelato l’arcano a lei, cara signora della quinta fila seduta affianco a me, che tanto ha tormentato il moroso affinché le svelasse il mistero di questo nome inconsueto! Adelmo appunto.
Sul palco, ad accompagnare il nostro Adelmo, una squadra di calcio composta da undici fuoriclasse pescati in diverse parti del mondo tra Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Cuba, Camerun.
Inutile ricordare che in mezzo a queste All Stars spiccano il chitarrista Mario Schilirò ed il bassista, nonché direttore artistico, Polo Jones, entrambi con Sugar sin dagli inizi.
Hey Man e Dune Mosse, i brani più datati, L’urlo la perla inaspettata, The scientist la cover dei Coldplay (dal recente Discover del 2021), come omaggio alla band inglese in segno di amicizia.
Con Baila (Sexy thing) il pubblico esplode, abbandona le sedie e corre a ballare sotto al palco, mettendo a dura prova e sfidando il servizio di sicurezza che cercava di rimandare tutti ai propri posti.
Con Miserere il duetto virtuale e commovente con l’amico Luciano Pavarotti (Quando Zucchero lo convinse a registrare l’intervento nel brano Miserere, seduto sul divano della sua casa di Macerata, Pavarotti fu preso dal panico. Chi mi da gli attacchi? E l’orchestra? L’orchestra dov’è? E Zucchero prontamente: “L’orchestra è già registrata e la senti in cuffia, gli attacchi te li do io stringendoti l’avambraccio” da Troppe zeta nel cognome di Mario Luzzato Fegiz del 2017).
Poi ancora un altro duetto, questa volta con la figlia Irene per il brano Cose che già sai, seguito da Diamante, Diavolo in me e Per colpa di chi?
World Wild Tour è il nome di questa tournée partita più di un anno fa e che ancora sta girando tutto il globo. Ben felici di aver preso parte a questa bellissima festa, avevamo bisogno di “tanta dolcezza”!
Per tanto tempo abbiamo sperato in almeno in po’ di Zucchero e questo bellissimo e abbondante concerto ci ha fatto sicuramente salire la glicemia.
Ben tornato Zucchero!

di Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto di Manuel Demori (per la serata del 04 luglio)

e di Simone Di Luca (per la serata del 05 luglio)

 

PORDENONE – Anche se l’edizione di quest’anno ha strizzato l’occhio alle band dall’impronta decisamente più Rock rispetto al passato, il Pordenone Blues Festival si conferma ancora una volta come una delle rassegne musicali più importanti del Nord Est e non solo.
Un calendario denso di concerti ed appuntamenti satellite hanno fatto sì che, anche questa volta, svariate migliaia di persone hanno raggiunto la città di Pordenone da ogni dove per partecipare alle serata in programma.
E’ bastato osservare le targhe delle macchine parcheggiate sin dalle prime ore del pomeriggio, oppure ascoltare la gente parlare, per capirne la provenienza, se da altre regioni italiane, oppure da nazioni limitrofe.
Dopo l’apertura in pompa magna il giorno prima con l’esibizione affidata al leggendario nome dei Deep Purple, il calendario del Festival  prevedeva lo spettacolo degli inglesi The Cult.
Con l’organizzazione “storica” dell’Associazione Pordenone Giovani, questa manifestazione negli anni passati ha presentato, nei vari bill, nomi come John Mayall, Eric Sardinas, Anastacia e Steve Winwood, solo per citarne alcuni, oltre al compianto Jeff Beck nell’edizione di un anno fa.
Questa volta invece il Pordenone Blues Festival ci propone la storica band inglese nella quale rimangono solamente due dei membri fondatori,  Ian Astbury alla voce, e Billy Duffy alla chitarra.
Ad aprire la serata, sarebbe ingiusto non menzionarli, i canadesi The Damn Thruth per un piacevole e colorato salto ai tempi degli hippies.
La cronaca. Finalmente smette di piovere ed il popolo dei The Cult è pronto ad accogliere i propri dei e tre minuti dopo le ventidue eccoli salire sul palco e prendere posizione.
Passano rapidamente i primi tre brani iniziali ed ecco che arrivano già le prime hit, in sequenza Sweet Soul Sister seguita da The Witch, pezzi che hanno il potere di catturare il pubblico, mentre Lil’ Devil mantiene alta la carica elettrica della serata.
Astbury,  vestito di nero con abito lungo, larga bandana a coprir la fronte fino quasi agli occhi, e due lunghe trecce di capelli neri, sembra quasi un magnetico stregone pellerossa intento a celebrare riti propiziatori per la sua tribù.
Ed il gioco diventa quasi magico quando, sulle note di Rain, qualche goccia inizia a scendere sulla folla entusiasta.
Inutile dire sia stato questo uno dei picchi della serata, ma non da meno l’immancabile She Sells Sanctuary eseguita immediatamente dopo (entrambi i brani estratti dal secondo disco The Cult del 1985).
Ma c’è ancora spazio per raggiungere nuovamente alte vette con la chiusura, classica, di Love Removal Machine.
Dopo ottanta minuti di culto del Rock, il nostro rituale purtroppo si chiude, ma siamo talmente tanto elettrizzati che ci va bene così.
Anche questa volta si tratta semplicemente di musica ma ci piace, e come se ci piace. 

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Elisa Moro