Archivi per categoria: RECENSIONI

© Simone Di Luca

MAJANO – Quest’anno le condizioni meteo hanno veramente ostacolato gli spettacoli e i concerti all’aperto. Tanti gli eventi annullati, molti quelli iniziati dopo ore di interminabili attese che smettesse di piovere oppure spettacoli in cui ci si godeva solo in parte la serata in quanto gli occhi erano sempre rivolti al cielo.
E poi ci sono stati i concerti posticipati all’ultimo momento come lo è stato quello di Calcutta a Majano, riprogrammato per la settimana successiva.
Considerando il cambio di programma, l’artista laziale è stato il terzo dei quattro nomi saggiamente scelti dall’organizazione professionale di Azalea per questo mini festival andato in scena presso la 59° edizione della rassegna enogastronomica e culturale della cittadina friulana (gli artisti inseriti in cartellone sono stati The Darkness, Jethro Tull e i Pink Sonic che chiuderanno la rassegna il 10 agosto).Ma veniamo al concerto, questo spettacolo che tanto è stato atteso, un vero evento che ha avuto come protagonista Calcutta, autentico fenomeno della scena indipendente di casa nostra che ha fatto breccia sia nei cuori del pubblico che della critica.
Ma chi è questo Calcutta il cui nome d’arte stona per essere un musicista? Chi è questo ragazzo che veste una felpa, porta la barba e indossa un cappellino sopra la zazzera, e che potrebbe ricordare di più il garzone dell’ortofrutta sotto casa, ma in realtà scuote sentimenti e sensazioni con le sue canzoni?
Edoardo D’Erme, questo il suo nome all’anagrafe di Latina dal 1989, inizia la sua storia sette anni fa debuttando con Forse… che cattura l’attenzione e pone le basi di quello che sarà il riconoscimento del pubblico giovane, e non solo, come si è potuto vedere al concerto di Majano.
Poi nel 2015 arriva Mainstream, secondo capitolo con il quale il nostro irrompe in tutti i circuiti con il singolo Oroscopo, una piacevole suite notturna come piace a me definirla.
Tutte le sue canzoni le sento notturne, perché le trovo perfette per essere ascoltate di notte, quando a casa ci si lascia andare senza pericolo alcuno di venir disturbati. Calcutta sorprende, affascina e intriga come tutta la nuova scena italiana dei cantautori, generazione di artisti che ai più anziani e puritani non riesce ad andare giù, anche se non vedo spiragli possibili per fare paragoni e tirare le somme.
Calcutta è un artista giovane e come tale si esprime e si rivolge al pubblico. Spiazzante è il potere evocativo delle sue melodie capaci di creare situazioni perfettamente nitide alla mente dell’ascoltatore, dove malinconia e romanticismo presenti nei testi propongono situazioni di vita in contesti urbani o di periferia che mi rimandano ad alcune desolazioni rappresentate nel film L’amico di famiglia di Sorrentino.


© Simone Di Luca
Gli undici musicisti saliti sul palco mi sembrano tanti per una serata così (senza contare i tecnici audio, luci e video che hanno allestito e gestito uno spettacolo davvero interessante), ma penso che la produzione abbia fiducia in questo nome e di conseguenza metta a disposizione una buona squadra, che forse è meglio chiamare team in riferimento al collettivo del cartone animato di Holly e Benji, serie omaggiata da Calcutta e la sua band indossando la maglia della New Team, squadra protagonista delle imprese del noto manga.
La scelta dei brani ovviamente include tutte le hit di maggior successo, ma c’è spazio anche per altri brani meno noti come Hubner (da Evergreen del 2018), dedicato al gran calciatore muggesano di metà anni ’90.
Ed a me, che sono della sua stessa zona, sembra veramente strano che il campanilismo di queste parti non abbia mai portato alla luce la storia di questa pregiata dedica.
C’è ancora della strada da fare per Calcutta, ma le basi sono buone e le collaborazioni con i colleghi più anziani (Elisa e Jovanotti), hanno già fatto capire che tutta la scena musicale italiana si è accorta di lui e del suo potenziale.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Simone Di Luca

 

UDINE – Al termine di ogni suo concerto ho sempre provato come una piacevole sensazione di essere avvolto in un comodo plaid, uno di quelli composti da tanti quadri colorati, quelli che oramai non si vedono più da anni.
In questo caso la differenza è che con la coperta non mi riscaldo,  ma mi ritrovo invece ad essere cullato da sensazioni ed emozioni che mi portano a fantasticare ed immaginare quanto la musica mi suggerisce.
Per giustificare questi stati d’animo basta ascoltare la voce di Loreena McKennitt e le melodie da lei intonate.
Dal debutto avvenuto con Elemental nel 1985, il percorso partito concettualmente dalla verde Irlanda (lei è di origini irlandesi e scozzesi), ha permesso al suo pubblico di fantasticare e viaggiare sino in terre esotiche molto lontane.
Ogni disco si è presentato pregno di sapori musicali, sfumature, atmosfere di ogni tipo e suoni amalgamati in modo da trasmettere palesi suggerimenti descrittivi per l’ascoltatore.Ma veniamo ora al concerto svoltosi nella serata conclusiva di Folkest (International Folk Festival), la nota rassegna che dopo ben undici anni di assenza ha ospitato nuovamente Loreena McKennitt nella suggestiva location del Castello di Udine per una serata che ha riservato due piacevoli sorprese.
La prima di queste è stata la formazione che è salita sul palco allestito nel piazzale del maniero rinascimentale, un inedito ensemble rispetto a quanto ci potevamo aspettare.
Una formazione ridotta rispetto alla coinvolgente carovana musicale delle altre occasioni.
Esclusi dai giochi ghironda e ammalianti percussioni etniche, oltre alla McKennitt e alla sua splendida e potente voce limpida che sembra non risentire del tempo che passa (suona anche pianoforte, fisarmonica e arpa celtica), troviamo gli storici collaboratori Brian Hughes ai plettri, Caroline Lavelle al violoncello, voce e flauto e Hugh Marsh al violino, oltre al contrabasso di Dudley Philips e la sezione ritmica di Robert Brian.
La seconda sorpresa invece risulta essere la scelta dei brani suonati in questo tour, una piacevole scaletta che si svela man mano che il concerto si svolge.
Davanti a millecinquecento spettatori, per due ore filate di spettacolo, i venti brani in programma sono tutti storici pezzi della sua nutrita discografia.
Si parte con The mystic’s dream dal disco The mask and mirror del 1994, album dal quale vengono riproposti il maggior numero di brani, si passa poi per The Visit del 1989 (All souls night e Bonny Portmore), The Book of secrets del 1997 (Marco Polo e Dante’s prayer per la chiusura), An ancient muse del 2006 (The gate of Istanbul), sino al protagonista discografico attuale che dà il nome al presente tour partito in marzo, ovvero Lost Souls pubblicato nel maggio 2018 e dal quale vengono riproposti in ordine di esecuzione Ages past, Ages hence, Spanish guitars and night plazas, Manx Ayre e l’omonima Lost souls.
La quarantunesima edizione di Folkest non si poteva chiudere in modo migliore.
Dopo un mese di eventi sparsi in ventidue comuni che hanno ospitato cinquanta spettacoli per la bella cifra di dodicimila spettatori, una serata all’insegna della musica irlandese assieme a Loreena McKennitt, musa per eccellenza della musica celtica, era l’evento ideale.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Walter Menegaldo

La sensazione che si prova già dal primo ascolto di Nuvole di passaggio, è quella di una piacevole riscoperta di emozioni e ricordi rimasti per troppo tempo nascosti dentro di noi. Tali elementi sono sì parte della nostra vita in quanto esperienze vissute e maturate durante il nostro cammino, ma purtroppo assimilate, digerite e di conseguenza messe da parte fino al giungere di un elemento di soccorso che inaspettatamente riporta a galla qualcosa di cui ci eravamo scordati.
Miriam Baruzza ha dato sfogo alla sua creatività e come un fiume in piena ha messo su carta i suoi pensieri, ne ha tracciato un sentiero musicale e con la voce ha dato vita a storie e personaggi che rivivono ora nelle dieci tracce di questo lavoro di debutto realizzato con la complicità del suo compagno artistico e di vita Alessandro Castorina e dei suoi fidi musici, una super ensemble che raggruppa svariati nomi noti della scena musicale triestina sotto il nome di Illirya (scelta non casuale proprio come l’antica regione adriatico-balcanica).Nuvole di passaggio (registrato da Edy Meola all’East Border Sound c/o Ass. Cul. Numerouno – arrangiamenti originali di Edy Meola, Mauro Berardi e Illirya) è un insieme di bellissime ballate in cui diversi personaggi si ritagliano uno spazio sempre in un contesto differente e suggestivo, raccontati in forma di storie popolari.
Ecco quindi che troviamo Maria la giovane bella del paese che dal suo bancone del mercato dove lavora regali sorrisi, amore e buon umore a tutti con le sue canzoni.
Oppure Il bimbo e il pellegrino, storia di due personalità diverse che si incontrano incrociando i loro sguardi, e tra sogni e ricordi stabiliscono un legame profondo.
Poi ancora La bella della montagna, sogno d’amore per i giovani di un paese che vorrebbero essere suoi pretendenti e intanto cantano di lei e del suo leggendario sentimento che rapisce e dona felicità, e La bambina di sabbia bellissimo brano in cui melodie di forte richiamo mediorientale, musiche e sonorità Progressive e anni ’70, audacemente ipnotizzano l’ascoltatore.
Difficile scegliere il brano migliore tra tutte queste gemme. Se dovessimo estrarne uno solamente per trainare la carovana, allora potrebbero giocarsela addirittura in cinque.
Si tratta di un disco alla portata di tutti, che facilmente cattura l’attenzione. Abbiamo davanti un arcobaleno che si mostra in tutta la sua bellezza, un lavoro dall’ampio respiro locale, dove leggende e musiche si uniscono come tanti tasselli per creare un colorato mosaico che non stenteremo a comprendere e ad apprezzare sin dal primo ascolto e che ci svelerà infinte sfumature.
Nuvole di passaggio è stato presentato ufficialmente in anteprima lo scorso febbraio al teatro di San Giovanni a Trieste, in anticipo rispetto alla sua recente pubblicazione.
Ora verrà portato in tour per essere suonato dal vivo e proposto interamente nella sua bellezza, anche perché Nuvole di passaggio non è solamente un disco a cui segue un concerto (è un progetto artistico concepito come un incontro ed unione tra musica, parola e danza in quanto forme creative ed espressive che fuse assieme offrono un’esperienza emotiva più intensa), ma vuole essere qualcosa di più, un racconto in musica che tramite immagini e narrazione ci offre la possibilità di visitare un immenso cielo limpido dove le nuvole sono gli incontri vissuti e le sensazioni provate nel corso della vita.

di Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste
foto tratte dell’archivio IlliryaMusic
illiryamusic@gmail.com
Facebook: Illiryamusic

PALMANOVA – Per tutto il pomeriggio si era temuto che il potente acquazzone che stava investendo la Regione avesse potuto guastare questa festa di inizio estate nella città stellata.
Un evento dal valore importante, che non solo doveva dare il via alla bella stagione che quest’anno si è fatta attendere, ma che doveva battezzare anche la rassegna dal titolo Estate di Stelle a Palmanova. E così è stato. Questo spettacolo si doveva fare e s’è fatto.
Una Piazza Grande gremita di spettatori ha applaudito per due ore il giovane trio de Il Volo, primo dei tre appuntamenti in programma in questa splendida cornice che ben si presta ad eventi di questo tipo.Artisti in splendida forma hanno reso entusiasta un pubblico variegato e proveniente anche dall’Austria e da oltre Manica come scopriamo dagli amichevoli dialoghi dei cantanti con gli spettatori tra un brano e l’altro.
Dieci anni sono passati oramai da quando Piero Barone, Ignazio Boschetto e Gianluca Ginoble (questi i nomi dei tre componenti, tutti nati nella prima metà degli anni ’90), hanno dato il via a questa storia fatta di alti e bassi (come dicono loro), ringraziando l’affezionato pubblico, senza il quale non sarebbero arrivati sino a qui.
Una convivenza fatta anche da difficoltà perché come tutti i rapporti bisogna anche affrontare momenti non facili.
Tre personalità diverse quindi a costituire questa mini brigata melodica composta da tre timbri vocali differenti, uno per ogni ruolo, incastonato alla perfezione come un diamante sull’anello.
Due dozzine di brani previsti in scaletta con tributi a celebri nomi della scena musicale italiana e internazionale. Il Volo, oramai consolidati a livello mondiale come ambasciatori della splendida tradizione vocale italiana, hanno portato in Regione questo nuovo spettacolo dal titolo Musica Tour 2019, che prende il nome dal disco omonimo pubblicato lo scorso febbraio.
Si parte con Il mondo (Jimmy Fontana) e si prosegue con My way (Frank Sinatra), Maria (dal musical West side story), Arrivederci Roma (cantata sia da Claudio Villa che Renato Rascel) e People (Barbra Streisand) solo per citarne alcuni, anche se i momenti migliori sono stati  No puede ser e Core ngrato con i quali hanno catturato il cuore del pubblico.
Verso la fine l’internazionale Nel blu, dipinto di blu (Volare) e in chiusura Grande amore, che per l’edizione del Festival di Sanremo del 2015 era valso loro il pregiato titolo della rassegna canora italiana.
Non c’è che dire, una grande serata. Ma lo spettacolo non è finito perché per la rassegna Estate di Stelle a Palmanova, organizzata da Azalea Promotion, sempre attenta ad artisti di qualità da proporre ad un pubblico regionale e non solo, continua in luglio per altri due appuntamenti con i King Crimson sabato 6 e Antonello Venditti giovedì 11.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto di Simone Di Luca

TRIESTE – Non provare alcuna emozione durante una delle esibizioni di STOMP è praticamente impossibile.
Ci sono diversi fattori che fanno apprezzare questo spettacolo che in quasi trent’anni di vita ha collezionato premi, ha raggiunto record di incassi e vanta una serie di repliche che proseguono in tutto il mondo; anche in strutture che li ospitano stabilmente.
Quando si arriva a questo punto, come tutti gli spettacoli che acquisiscono una certa notorietà e richiesta, è necessario ampliare l’organico e STOMP attualmente è impegnato in una tournée mondiale con cinque compagnie composte da una dozzina di artisti di cui otto per volta salgono sul palco ad ogni replica.
L’originalità degli autori Luke Cresswell e Steve McNicholas (anch’essi performer) ha portato STOMP sino al connubio con alcuni celebri marchi per la realizzazione di sorprendenti spot televisivi.
Quattro i passaggi in totale a Trieste da quella prima volta avvenuta nel 1999 e di ritorno in città al Teatro Rossetti dopo alcuni anni di assenza (evento organizzato assieme a Terry Chegia), lo spettacolo fa il pienone ancora una volta confermando d’essere un’ottima scelta per l’inserimento in cartellone di una stagione artistica.
STOMP è avvincente perché rappresenta la quotidianità urbana messa in musica mediante oggetti di comune e quotidiano utilizzo.  Alla base di tutto troviamo il ritmo, i colpi, lo scandire del tempo. La prima forma di musica che ascoltiamo durante la nostra vita è proprio un battito, quello materno quando stiamo in grembo.
Sorprendono i performer che danno vita a questa rappresentazione artistica completa ed inimitabile dove danza, recitazione, musica e ritmica si uniscono in una sola forma.
La scenografia riporta ad un ambiente metropolitano dove ramazze, secchi di vernice, cartelli stradali, carrelli della spesa e fogli di giornale diventano protagonisti sulla scena dando vita ad un vero e proprio concerto. Ogni giorno potremmo assistere a performance di questo tipo. Quante volte, e non solo da bambini, abbiamo provato a percuotere qualche oggetto per fare musica anche solo per scherzare?
Le selezioni degli aspiranti stomper immagino siano veramente difficili, e altrettanto difficili devono essere da imparare le varie figure da eseguire in scena.
Se non hai il senso del ritmo non fa per te, se non sai ballare allora lascia stare. Scarponi pesanti ai piedi degli otto attori per un Tip-tap da marciapiede catramato scuotono il teatro che trema al rimbombo del loro pestare.
Acquai metallici da cucina che diventano drum set portatili, oppure accendini in perfetta sequenza non solo suonano ma creano un piacevole gioco di lieve illuminazione con le fioche fiammelle nella sala buia per il momento. E poi la bellissima coreografia con i bastoni oppure l’incantevole ed inaspettata melodia prodotta dai tubi di gomma percossi a dovere.
Il momento tanto atteso, quello più conosciuto di STOMP, è la sequenza ritmica dei bidoni metallici divisi in due squadre di pari elementi che sembrano sfidarsi sul palcoscenico mentre un bidone di plastica scandisce il tempo con un potente suono profondo.
La stessa scena è stata proposta nel pomeriggio del debutto in Piazza Unità davanti al palazzo del Comune. Una sorta di benvenuto con un bel numero di presenti.
Così anche quest’anno la stagione teatrale volge al termine. Nulla di meglio per il Teatro Rossetti per congedarsi dal proprio pubblico.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

foto da www.ilrossetti.it

 

 

TRIESTE – Già da diverse ore si è chiuso il sipario del Teatro Rossetti su quello che è stato il concerto evento di Paolo Conte assente da troppi anni dalla nostra regione.
Oramai è notte fonda quando sto scrivendo queste righe e l’adrenalina non vuole saperne di lasciarmi dormire.
Quando si parla di Conte che suona dal vivo si sa benissimo a cosa si va incontro, e scrivere di lui e delle sue esibizioni non è affatto facile.
Tutta una serie di fattori legati a questo artista fanno sì che attorno a lui si sia creato il mitico personaggio Conte, un’autentica leggenda vivente capace di ammaliare le più esigenti platee del mondo.
Immenso ed enigmatico nel modo di creare la sua arte, attorno al suo nome ruotano situazioni ed atmosfere create dalla musica, mentre personaggi e luoghi, a volte immaginari e a volte reali perché incontrati o visitati nel corso delle sue esperienze di vita, vengono descritti nei suoi testi; in certi casi tutto questo è addirittura tradotto in disegni firmati dallo stesso Conte.
Per comprendere e conoscere al meglio questo artista è indispensabile il libro Quanta strada nei miei sandali: in viaggio con Paolo Conte, scritto da Cesare Romana.
Avvocato in primis, poi autore ed infine musicista jazz con la passione del disegno sin da quando era bambino, Paolo Conte irrompe sulle scene discografiche nel 1974 con un disco che porta il suo nome e lo fa dopo aver firmato, per altri cantanti prima di lui, brani diventati celebri.
Insieme a te non ci sto più, Onda su Onda, Messico e Nuvole, Tripoli ’69 e Genova per noi sono alcuni dei suoi titoli più conosciuti ma, sopra tutti c’è quella Azzurro pubblicata nel 1968 e portata al successo da Celentano, brano fortunato e datato che viene scelto per dare il nome a questo tour celebrativo passato anche per Trieste in questa anomala primavera.
Una serata organizzata dal Politeama Rossetti in collaborazione con Concerto Music, dove musica e solidarietà nuovamente si sono unite, questa volta a favore del Comitato Friuli Venezia Giulia AIRC per raccogliere fondi a sostegno dei migliori progetti di ricerca per la cura dei tumori pediatrici.
Dicevamo del concerto celebrativo dal titolo 50 years of Azzurro (50 anni di Azzurro) appunto, svoltosi in un teatro pieno zeppo dove non c’era più nemmeno un posto libero.
In Italia come all’estero, Conte e la sua orchestra registrano sold out in ogni dove, così come in quella Parigi che non solo si prenota i suoi spettacoli per diverse repliche ma che gli concede anche l’onore di pregiate onorificenze cittadine.
Ecco quindi che anche il pubblico triestino non è da meno ed è impaziente di sentirlo cantare con quella voce particolare che, per quanto grigia sia, riesce a dare colore e riscaldare l’ascoltatore, inserendosi perfettamente nella cornice del mondo contiano.Il sipario si apre, lo spettacolo inizia e tra passaggi virtuosi e suadenti melodie che sanno come coccolare l’ascoltatore, lo spettacolo cattura, rapisce e ci porta dove l’immaginazione vuole, proprio come desidera l’artista che per questo motivo, al contrario di tanti suoi colleghi, non si rivolge mai al pubblico se non con gesti e sorrisi di compiacimento durante le piogge di applausi tra un brano e l’altro. Questo è ciò che preferisce, il riconoscimento da parte del pubblico.
Da dietro al pianoforte il direttore d’orchestra dirige la serata che è una continua sfilata di successi, da Come Di (eseguita con l’immancabile kazoo, strumento sì abbinato da sempre al mondo del Jazz ma in particolar modo associato al repertorio di Conte in quanto sin dai suoi esordi, in mancanza di una band per motivi di denaro, lo accompagnava assieme al pianoforte per riempire le sue esibizioni), a Sotto le stelle del Jazz, da Alle prese con una verde Milonga alle nostalgiche melodie di Giochi d’azzardo e la bellissima Gli impermeabili, brano capace di alimentare emozioni sino in chiusura quando uno strepitoso assolo di sax regala l’atmosfera di un film d’altri tempi, una di quelle pellicole che fanno incetta di premi e lacrime.

Via con me è il brano più conosciuto e l’unico per cui il pubblico disturba l’esibizione scandendo il tempo con le mani.
Ma il meglio deve ancora venire e sarà servito da lì a poco. Ecco che dopo la classe di Max, sostenuta da un ottimo suono di marimba, ad un passo dalla chiusura arriva Diavolo Rosso, ovvero dodici minuti di estasi.
Il brano, il cui protagonista è nuovamente un ciclista (questa volta si tratta di  Giovanni Gerbi, astigiano e concittadino di Conte), è una cavalcata potente e irruenta che mette in risalto l’orchestra. La precisa ritmica alla batteria da parte di Daniele Di Gregorio e la linea di basso di Jino Touche indicano la strada mentre le tre chitarre (Daniele Dall’Omo, Nunzio Barbieri e Luca Enipeo),  tengono il pubblico con il fiato sospeso fino alla conclusione dei tre assolo di clarinetto, fisarmonica e violino eseguiti rispettivamente da Luca Velotti, Massimo Pitzianti e Piergiorgio Rosso che incendiano gli strumenti e mandano in visibilio il pubblico. Alla fine del brano sarà “standing ovation”.
C’è spazio ancora per un brano in chiusura e quindi si parte con Le chic et le charme, al termine del quale Conte che si congeda dal pubblico uscendo di scena suonando il kazoo.
Dopo ottanta minuti il sipario si chiude, il pubblico grida, acclama e si spella le mani applaudendo.
A luci accese in sala, Conte farà una sola apparizione per saluti e ringraziamento senza concedere alcun bis, alimentando il dubbio che, forse, qualche brano sia stato “tagliato” dalla setlist.
Gli spettatori per sette minuti non accennano a volersene andare mentre, fuori dal teatro, gira già la voce che Conte sia uscito per primo, in fretta e furia, per fuggire a prendere un volo a Venezia. Però…il signor Conte…classe 1937, non lo si vedeva in Regione dal 2007 (Villa Manin) e a Trieste dal 2002 (Teatro Rossetti), chissà se lo rivedremo nuovamente.

Cristiano Pellizzaro per Radio City Trieste

Foto di Franco Pellizzaro

UDINE – Parlare di John Mayall significa raccontare di un gigante, di un mito che ha fatto la storia della musica.
Grazie a lui e a Alexis Korner, il mondo musicale ha avuto “materia prima” per crescere e moltiplicare.
Non per nulla è stato nominato The Godfather of the British Blues (il padrino del Blues Britannico), realizzando dischi uno dietro all’altro già a partire dal 1965 ed anche scoprendo di grandi talenti come Eric Clapton, Mick Taylor e Peter Green.
Andare a vedere uno di questi personaggi oramai non più giovani (ottantacinque primavere e ancora “on the road”), significa stare davanti ad un’autentica leggenda vivente.
Pochi, arrivati a questo punto, possono avere ancora qualcosa da dire e, in certi casi, ci si trova ad assistere solamente ad una celebrazione del personaggio.Le cronache che sono riuscito a consultare raccontano di Mayall già in Regione al Palazzetto dello Sport di Gorizia il 15 dicembre del 1982, con uno svogliatissimo (così ricordano i presenti) ma eccezionale Mick Taylor a suonare la chitarra seduto a bordo palco.
Poi fu la volta di Trieste al Castello di San Giusto ed era l’estate del 1984, più precisamente il 13 luglio.
In quell’occasione si presentò nel Capoluogo con i Bluesbreakers, sua creatura fondata e sciolta in diverse occasioni.
Esattamente vent’anni dopo arrivò al Castello di Udine nell’ambito del Folkest, e per l’occasione, con gran sorpresa dei presenti, sul palco assieme a lui per il brano di apertura e altri due in chiusura, come special guest, alla chitarra si esibì Rudy Rotta, Bluesman italiano molto apprezzato in tutto il mondo durante la sua carriera.
Ulteriore nota per questa passata tappa va rivolta alla band, in quanto era la stessa massiccia formazione che l’anno prima aveva accompagnato Mayall per il concerto celebrativo dei suoi primi settant’anni, occasione alla quale presero parte anche i suoi già citati pupilli Clapton e Taylor.

Ma torniamo alla serata di Udine di questo inizio primavera, quando è andato in scena un autentico evento e per il quale abbiamo trovato al Teatro Nuovo Giovanni da Udine un folto pubblico di musicofili e amanti del Blues che non si sono lasciati sfuggire questa ghiotta opportunità offerta dall’ottima organizzazione a cura di Azalea.

Il ruolo del supporter in queste occasioni è veramente un incarico di responsabilità. Devi essere all’altezza della situazione, reggere il confronto con la big star e soddisfare gli spettatori che non si accontenteranno facilmente.
Saggiamente nel nostro caso la scelta è caduta sul sardo Francesco Piu, ottimo chitarrista del genere, che ha provveduto a riscaldare il pubblico come si deve.
Non per nulla nel 2017 è stato scelto pure lui come interprete da inserire nella compilation The Blues Master: an italian tribute, una raccolta di brani di artisti storici del Blues risuonati da nomi eccellenti del Bel Paese come Guido Toffoletti, The Cyborgs e il nostro orgoglio cittadino Mike Sponza (presente anche lui tra il pubblico), che per questo tributo discografico ha rivisitato un brano dello stesso Mayall dal titolo Little girl.
La serata è proseguita poi con il tanto atteso John Mayall, uno che non si è mai fermato nella sua carriera, uno che ha speso tutta la sua vita per la musica.
In questo passaggio in terra friulana Mayall, tra ovazioni e applausi, ha presentato il suo ultimo disco da studio dal titolo Nobody told me pubblicato lo scorso febbraio, disco ricco di collaborazioni (Joe Bonamassa e Steven Van Zandt solo per citarne due), suonando The moon is full e altre perle della sua ricca carriera come Dirty water, One life to live, So many roads e Chicago line estratto addirittura dal suo primo disco.
In totale dodici brani in scaletta per una durata di poco meno di due ore di spettacolo, alternandosi, come ben ci ha abituati, tra piano elettrico ed Hammond, chitarra ed armonica, mentre ad accompagnarlo abbiamo trovato una band di tre elementi tra i quali spicca senza dubbio Carolyn Wonderland, ottima chitarrista e cantante con buona voce a tratti molto graffiante.

Alla fine, per niente stanco, John Mayall si è concesso al pubblico per una tranquilla serie di autografi per tutti.
Indubbiamente una grande serata che difficilmente si ripeterà, facendo pentire amaramente chi purtroppo non c’era.

 

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Fabrice Gallina

TRIESTE – Teatro pieno e pubblico molto eterogeneo per il concerto di Ermal Meta al Rossetti di Trieste.
Apre lo spettacolo il giovane e promettente Pierfrancesco Cordio, cantautore siciliano, con quattro brani incluso “La nostra vita”, presentato al Festival Sanremo Giovani 2019 e scritto con l’aiuto dello stesso Ermal Meta. Cordio chiude tra gli applausi e dà spazio a Ermal che inizia al pianoforte per poi passare alle chitarre semi elettriche.
Il cantautore si rivela un ottimo interprete sfoderando una voce bella, potente e ricca di sfumature, completata da un meraviglioso e invidiabile falsetto che riesce a dare coloriture molto particolari ed efficaci in alcuni dei pezzi presentati.
Il repertorio selezionato spazia tra il presente e il passato offrendo i brani più celebri, qualche pezzo scritto per la sua band precedente “La fame di Camilla”, e alcune suggestive cover.

La scrittura musicale delle composizioni è semplice, ma estremamente valida, eseguita per l’occasione con gli arrangiamenti del GnuQuartet (Raffaele Rebaudengo alla viola, Francesca Rapetti al flauto traverso, Roberto Izzo al violino e Stefano Cabrera al violoncello e al pianoforte) che ha accompagnato Ermal per tutto il concerto arricchendo la melodia delle sue canzoni di sfumature classiche senza però snaturarne il senso originale. Testi molto intelligenti che parlano d’amore, ma anche di temi scottanti quali ad esempio la violenza domestica e il terrorismo.
Brevi aneddoti e scambio di battute con gli spettatori rendono l’interazione sempre viva e costante durante tutto lo spettacolo.
Scenografia essenziale per due ore di grande spettacolo e quattro bis concessi per la gioia dal partecipativo pubblico.
L’omaggio finale a Domenico Modugno con una cover di “Amara terra mia” è stato molto, molto apprezzato ed emozionante.
Un evento da ricordare nella nostra città, organizzato da Azalea Promotion in collaborazione con la Regione Friuli Venezia Giulia e Il Rossetti.

Per Radio City Trieste, Michele Marolla
Foto Manuel Demori

PORDENONE – Mi sono sempre chiesto quale sia l’elemento che provoca la reazione per cui una certa musica smuove qualcosa nell’ascoltatore. Nell’autunno di tre anni fa per una pura coincidenza, nemmeno ricordo cosa stessi cercando, su Youtube mi saltò fuori il canale della KEXP, una stazione radiofonica di Seattle che proponeva un’interminabile lista di interviste con esibizioni di innumerevoli artisti.
In quel momento mi si è aperto un mondo. Un giardino pieno di fiori, colori e profumi che in un batter d’occhio mi hanno fatto perdere il senso dell’orientamento talmente vasta era la scelta.
Trovai di tutto lì dentro, da nomi noti come Bonobo, Stromae, Thievery Corporation e il nostro Jovanotti, ad altri per nulla conosciuti come i Vök, una giovanissima band islandese di Reykjavik che si muoveva tra elettronica, atmosfere al limite del Trip-Hop e gustose sonorità Indie.
Si rivelò nitidamente sin da subito una ovvia matrice di provenienza della terra dei ghiacci, la stessa che ha dato i natali alla nota Bjork e ai suoi Sugarcubes, ai Sigur Ròs e ai fantastici ma meno noti Samaris.Chi l’avrebbe mai detto che da un’isola come l’Islanda potevano venir fuori tutti questi nomi? Probabilmente a giocare un ruolo determinante dev’essere la posizione geografica, identificata nella prolifica triangolazione i cui vertici sono Danimarca, Scandinavia e Islanda appunto.
Da quest’isola lontana i Vök arrivano inaspettatamente fin nella nostra zona e sinceramente non so quando potrà capitare un’altra occasione di rivederli da queste parti.
Attivi da ormai sei anni, con un leggero cambio nella line up rispetto alla partenza, due Ep e un disco dal titolo Figure pubblicato nella primavera del 2017, i Vök per la terza volta, e quasi in sordina, sono arrivati in Italia a presentare il raffinato Dream Pop di loro creazione e composto da elementi di spicco che si confermano essere inconfondibili connotati di riconoscimento.
Il set eseguito è limitato nella durata (non è possibile pretendere un’interminabile cavalcata), ma quanto andato in scena ha regalato una piacevole e divertente serata da gustarsi preferibilmente nei club.
Forse ancora un po’ acerbi per certi versi, e vista la giovane età non può essere diversamente, hanno dato comunque prova di talento e consapevolezza. Nessuna spavalderia o gesto eccessivo sulla scena che hanno dimostrato di saper affrontare.
Penso sia da ritenersi fortunati a vedere adesso i Vök. Le platee potrebbero diventare molto più grandi e affollate in un domani non tanto lontano.
Dire di averli visti ad un palmo dal naso potrebbe essere un bellissimo ricordo.

 

 

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Cristiano Pellizzaro

 

 

 

TRIESTE – Sin da quando la data di questo concerto era stata annunciata, si era capito che la sala sarebbe stata presa d’assalto dallo scatenato pubblico delle grandi occasioni, e proprio per questo motivo la platea è stata sgomberata dalle sedie per lasciare posto a chi avrebbe voluto ballare senza sosta.
Ray Gelato assieme ai suoi Giants è ritornato a Trieste dopo un’assenza durata un bel po’ di tempo ed è stato davvero un grande evento!
Proprio al Teatro Miela era passato, all’inizio della sua carriera, venticinque anni fa, quando cominciava a muovere i primi passi nell’universo musicale.
Quindi, assolutamente dovuto un concerto a casa nostra, per questo tour celebrativo del quarto di secolo di attività, occasione che giustamente il Miela ha colto al balzo, come sempre sa fare portando nella propria struttura nomi di rilievo per serate che contano.Ray Keith Irwin (questo il vero nome di Ray Gelato, classe 1961, britannico e non americano come si potrebbe pensare) ha regalato per una sera il gusto dell’atmosfera dei club d’oltre oceano, quelli di diversi decenni fa, visti nei film americani che ci hanno fatto sognare, quelli delle piccole orchestrine guidate dai grandi maestri dello Swing, del Jazz e dei Crooner.
Anche il dress code (d’obbligo in questo caso) viene rispettato, ed ecco quindi  eleganti completi indossati da tutti i presenti sul palco, in contrasto però nel colore, dove il blu spetta ai musicisti ed il marrone per il front man, in modo da farne risaltare la presenza e sottolinearne il suo ruolo.

Tanti i brani conosciuti e inseriti in scaletta come Carina, Just a Gigolò e Torero, ma anche A Pizza You, Bar Italia e The Celebrity Club, tutti suonati con affiatamento e maestria dai sei elementi della band, tra i quali ritroviamo il contrabbassista Manuel Alvarez, il batterista Marti Elias e Gunther Kurmayr al pianoforte, tutti già visti con il Ray Gelato Quartet per l’edizione 2016 del Muggia Jazz Festival.

L’indiscusso leader della scena cattura l’attenzione e diverte, si alterna tra sassofono e microfono muovendosi sul palco con il braccio piegato mentre le dita schioccano e tengono il tempo.
Fosse per lui, non scenderebbe mai dal palco.
Alla fine bagno di folla nel foyer per autografi e foto di rito.

Cristiano Pellizzaro per RadioCityTrieste

Foto di Fabrizio Caperchi (www.lanouvellevague.it)